L’economista Julia Cagé spiega perché è il modello di business al centro di Facebook e delle altre piattaforme a favorire la diffusione di teorie complottiste come quella di QAnon
- Julia Cagé è professoressa di Economia a Sciences Po Paris. Dal 2020 è presidente della Société des lécteurs du Monde che riunisce 12.000 lettori-azionisti del quotidiano Le Monde.
- Come economista si occupa soprattutto di economia dei media e del loro impatto sulla democrazia, oltre che di modalità di finanziamento della politica.
- Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il prezzo della democrazia per Baldini+Castoldi.
Pubblichiamo un estratto dell’intervista all’economista Julia Cagé, la versione integrale è contenuta nel nuovo numero della rivista Il Mulino, disponibile in una versione rinnovata nella grafica e nei contenuti
Julia Cage è professoressa di Economia a Sciences Po Paris. Dal 2020 è presidente della Société des lécteurs du Monde che riunisce 12.000 lettori-azionisti del quotidiano Le Monde. Ha inoltre fondato Un bout du monde, associazione che ha come oggetto «la difesa dell’indipendenza dei media e lo sviluppo di una stampa libera e pluralista nello spazio mediatico europeo». Julia Cagé ha sostenuto prima Francois Hollande nel 2012 e, poi Benoit Hamon durante la sua campagna per le presidenziali come responsabile economia.
La sua conoscenza dell’economia dei media le ha dato un punto di vista privilegiato sulla crisi del Covid-19?
Per chi studia i media, il 2020 è stato un anno interessante ma deprimente. Con le misure prese per contenere la diffusione della pandemia, il mercato pubblicitario si è ridotto in modo notevole e i media devono trovare un modello economico alternativo. Di fronte a questa rottura, la prima tendenza è un rafforzamento della mancanza di pluralismo nel mercato, perché ci ritroviamo con un piccolo gruppo di vincitori e con un numero maggioritario di media che non sembrano in grado di compiere questa transizione.
I media che hanno investito di più nella sembra abbiano resistito meglio all’impatto pandemico.
In un libro che ho pubblicato nel 2017 insieme a due informatici, abbiamo creato un database che ci ha permesso di studiare il contenuto pubblicato dai media in Francia nel corso del 2013. Abbiamo concepito degli algoritmi per ricostruire alcuni eventi chiave e all’interno degli eventi abbiamo categorizzato in ordine cronologico l’insieme degli articoli pubblicati. Poi abbiamo esaminato cosa fosse originale e cosa invece fosse semplicemente ripreso da articoli precedenti. È emerso che in realtà quasi due terzi delle informazioni online sono copiate e solo il restante terzo e fatto di informazioni originali. Nel libro mostriamo che la produzione di informazioni originali è altamente correlata alla dimensione delle redazioni. Ciò che non è correlato, invece, è la quantità totale di informazioni, perché redazioni molto piccole possono moltiplicare il contenuto, semplicemente ricopiando.
Qual è la conclusione che ne trae?
Su Internet, è produrre una quantità di informazioni molto rapidamente con pochi giornalisti: basta fare copia e incolla. Al contrario, non si può produrre molta informazione di qualità senza aver investito in modo adeguato nelle redazioni e nei giornalisti.
Vorrei tornare sulla diffusione di quelle che vengono chiamate fake news e più in generale sulla disseminazione delle teorie del complotto. Pensa che la crisi del Covid-19 stia accelerando questo fenomeno?
Prendiamo il caso di Facebook. Sappiamo che le entrate pubblicitarie di Facebook aumentano con il numero di click, con una conseguenza lineare: qualsiasi modello di business che si basa solo sui click finisce per promuovere contenuti complottisti, perché generano più interazioni e quindi piu entrate pubblicitarie. Dato che non esiste oggi una regolamentazione del modello economico di queste piattaforme, che non hanno alcuna responsabilità editoriale, abbiamo poche armi per affrontare alla radice la diffusione delle teorie del complotto.
Come spiega lo spillover delle fantasmagorie del complotto come ad esempio QAnon, che, strutturate dalle piattaforme, conducono a forme di socializzazione e politicizzazione tanto concrete quanto violente, come ha mostrato l’assalto a Capitol Hill?
QAnon e un fenomeno statunitense che deve essere collegato al disinvestimento sostanziale negli ultimi 30-40 anni nell’istruzione e nell’educazione di massa negli Stati Uniti. Emmanuel Saez e Raj Chetty con altri hanno pubblicato nel 2014 un paper sull’American Economic Review che studia la probabilità che si ha in quel paese di ottenere un’istruzione superiore in base al reddito dei genitori. La percentuale e vicina al 100 per cento quando i vostri genitori sono in cima alla distribuzione del reddito e prossima allo 0 per cento quando sono in fondo. Se prendiamo le scuole medie e superiori degli Stati Uniti, si può vedere come negli ultimi decenni siano stati spesi molti meno soldi di prima. Si tratta di un processo poco visibile all’esterno, perché gli Stati Uniti hanno ancora un vantaggio educativo molto importante nell’attrarre talenti stranieri, grazie ad alcune delle migliori facoltà del mondo, ma in termini di istruzione media della popolazione il livello tende a diminuire in modo drastico. La gente non e diventata stupida, abbiamo semplicemente smesso di spendere soldi per educarla. La diffusione delle teorie del complotto e delle fake news viene da qui. E questo e anche il motivo per cui abbiamo reti potenti come QAnon negli Stati Uniti e molto meno in Francia o in Italia. La seconda spiegazione e che negli Stati Uniti ci sono moltissimi soldi per finanziare iniziative o piattaforme complottiste. Miliardari o politici come lo stesso Donald Trump non credono necessariamente nel contenuto di queste teorie, ma hanno interesse a spingere un’agenda che rafforza il disorientamento generale.
Parliamo della questione della regolamentazione delle piattaforme. Come si dovrebbe fare?
La regolamentazione avverrà a livello europeo: la dimensione di questi attori e il loro peso in termini di capacita di lobby sono troppo importanti per l’Italia o la Francia da sole. Del resto, negli Stati Uniti c’è una sorta di aspettativa di una spinta europea. Durante la presidenza Trump, molti avevano quasi paura che se l’Europa non fosse andata avanti per conto suo, il principio della regolamentazione negli Stati Uniti non sarebbe mai potuto passare. Potrebbe essere un po’ diverso con Biden. E’ palese che ogni singolo Paese e un nano rispetto a queste piattaforme e quindi non sarà in grado di proporre una regolamentazione efficace.
Dall’inizio del 2021, il governo australiano sta tentando di regolamentare Google. Se si utilizza Google in Australia per una semplice ricerca si ottengono messaggi automatici minacciosi che dicono che «la legge sta intervenendo sul modo in cui Google opera». Nessun paese, tranne forse gli Stati Uniti, ha la forza di regolare da solo queste piattaforme. Ecco perché bisogna agire su un livello transnazionale e perché, per noi, il livello europeo sembra una scala pertinente. Non è un caso che l’avanzamento più importante degli ultimi anni sia venuto dalla politica comunitaria, con la direttiva europea sul diritto d’autore nel mercato unico digitale adottata il 26 marzo 2019. La direttiva non propone una regolamentazione dei contenuti editoriali, ma stabilisce un principio chiave: le piattaforme devono remunerare i media quando prendono i loro contenuti, dopo avere preso i loro ricavi pubblicitari.
La trasposizione della direttiva non é però lineare…
L’unica ragione per cui questa direttiva europea non funziona bene risiede nel fatto che si tratta, appunto, di una direttiva, cioè di un atto legislativo che deve essere recepito nel diritto nazionale. Sarebbe stato meglio avere un regolamento europeo che si impone a tutti i paesi in una volta sola.
Non teme che rimanendo sul livello comunitario la questione della regolamentazione finisca per assumere una connotazione puramente tecnocratica, senza riuscire a politicizzare i problemi di fondo posti dalle piattaforme?
Bisogna fare in modo che l’Europa sia più politicizzata. Ma non penso affatto che una questione trattata a livello europeo debba per forza diventare una questione tecnocratica. Le questioni sollevate dalla regolamentazione richiedono competenze avanzate nel diritto della concorrenza, nel diritto fiscale europeo, ma hanno anche una portata politica: le piattaforme devono pagare le tasse? Bisognerebbe scorporarle? Si dovrebbe impedire che acquisiscano tutti i nuovi entranti sul mercato? Se dovessimo effettivamente scorporare Facebook e WhatsApp, dovremmo articolare un’iniziativa tecnica e politica. I due aspetti non sono contraddittori.
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