Prima è stato il turno di Giuseppe Conte. Per alzare i toni, per chiamare i suoi a partecipare al ri-voto della costituente in programma fino a domenica, ha chiarito – sia mai qualcuno non l’avesse chiaro – che schierarsi nel campo progressista non significherà, per il Movimento, essere subalterno al Pd. Dunque ha sparato critiche contro Elly Schlein per il sì alla Commissione Ue, alla spesa per le armi, all’aiuto militare all’Ucraina, insomma «all’escalation».

Giovedì, sulla Stampa, ha tirato una somma provvisoria: se si votasse oggi, il M5s correrebbe solo. «Se vuoi fare l’accordo, quello non è il modo migliore di porlo», commenta sconsolato Andrea Orlando, deputato Pd.

Poi è stato il turno di Carlo Calenda. Anche lui se l’è presa con la segretaria, rea di non aver detto, secondo lui, una parola sulle dimissioni dell’ad di Stellantis Carlos Tavares, e sulla crisi occupazionale che incombe sull’azienda.

Per l’occasione ha citato Nanni Moretti e le ha rivolto un appello: «Dì qualcosa di sinistra, perché non c’è niente più di sinistra che questa battaglia, cioè vedere lo scempio di un capitalismo predatorio, assistito, che lascia gli operai per strada. Se non siamo in grado di parlare di questo, fregandocene di chi possiede i giornali, non siamo in grado di dare rappresentanza alla parte che dobbiamo proteggere».

L’allusione è a un altro cavallo di battaglia di Calenda, fin qui scagliato contro il segretario della Cgil, Maurizio Landini: la sinistra e il sindacato starebbero zitti sugli errori di Fiat-Fca-Stellantis in cambio di un trattamento di favore sui giornali della famiglia Agnelli, Repubblica e Stampa.

Schlein oggi a Pomigliano

Schlein, fedele al voto di non belligeranza con le altre forze dell’opposizione, non ha risposto. Stamattina alle 11 sarà allo stabilimento Stellantis di Pomigliano. E dal Nazareno questo è tutto. O quasi, c’è una chiosa. «Calenda e Conte non hanno ancora capito che a forza di attaccarci i voti li stanno perdendo loro», viene spiegato, «il nostro elettorato premia il Pd e Avs proprio perché sono due forze unitarie».

La ricostruzione viene comunque contestata dal deputato dem Arturo Scotto: Calenda, dice, è un «neofita dell’operaismo. Il Pd in questo anno e mezzo si è occupato di Stellantis tutti i giorni. E non sui giornali o sui social o nei convegni, ma nelle piazze e nelle istituzioni. Basta informarsi sulle decine di interrogazioni parlamentari, di risoluzioni in commissione e in aula, di interventi e atti nei consigli comunali e regionali, o sull’intervento di Schlein all’audizione di Tavares».

E poi nei cortei, fino all’ultimo, quello dello sciopero generale, e ancora le presenze a Mirafiori, Pomigliano, Termoli, Melfi, Bologna: «Sfugge per quale motivo Calenda polemizzi oggi con Schlein quando abbiamo un governo che taglia 4,6 miliardi sul fondo per la transizione nell’automotive».

Antonio Misiani, responsabile economia Pd, su La7 se la prende con il ministro Adolfo Urso che ora promette soldi all’automotive: «È ridicolo, ha già tagliato il fondo da 5,8 a 1,2 miliardi e adesso sta raccattando faticosamente mezzo miliardo per il 2025».

Ce l’ha anche con «i leader delle grandi case automobilistiche» europee che «non hanno creduto nell’elettrico, hanno distribuito un mare di soldi ai propri azionisti, investendo molto meno del necessario in ricerca e sviluppo». Misiani ricorda che all’auto elettrica non hanno creduto «né Marchionne né Tavares». Ed è qui che si può trovare un passato poco presentabile del Pd: all’epoca, il manager italo-canadese era considerato dai dem un’autorità indiscutibile. Ma va ricordato che quello era il Pd Avanti Schlein.

Tutti contro una

Quella di Calenda, però, ha l’aria di esser qualcosa di più di una polemica di giornata. In queste settimane le forze dell’opposizione stanno lavorando in parlamento a emendamenti comuni alla finanziaria: sanità, congedo paritario, salario minimo, soldi per la ricostruzione nelle regioni alluvionate e, appunto, ripristino del fondo per l’automotive. E, nonostante questo, tira il venticello del tutti contro tutti.

I motivi dei singoli leader si capiscono: la guerra scatenata da Beppe Grillo contro Conte costringe l’ex premier a mettere l’accento sulla «indipendenza» dal Pd; gli scarsi consensi dell’ex Terzo polo consigliano a Calenda di sfidare il Pd; e a Matteo Renzi di sfidare Conte sulla necessità di un’alleanza tutti assieme.

Nel pomeriggio di giovedì la segretaria, in un seminario sull’Autonomia differenziata, ha ripetuto: «Stiamo costruendo un progetto per l’Italia, per dare al Paese un’alternativa a questa destra». Ma come? Pochi giorni fa ha avanzato una proposta di coordinamento con le altre opposizioni. Conte non ha risposto, per lui è il momento dei distinguo, ha spiegato persino che lui «non è di sinistra».

Il «medio progressista»

L’eurodeputata Pina Picierno lo sfotte: è come «il Megadirettore Galattico Duca Conte Balabam in Fantozzi, il leader M5s inventa una nuova categoria dello spirito: il progressista non di sinistra. Un medio progressista, insomma».

Alessandro Alfieri, all’Adnkronos, esibisce «comprensione politica per la fase politica» che sta vivendo Conte, ma la pazienza ha un limite: nel merito delle accuse, «se la Commissione europea fosse saltata, avremmo fatto un regalo enorme a Putin e a chi punta a indebolire le istituzioni comunitarie». Ma c’è anche un problema di metodo: «A volte potrebbe anche essere più prudente nei giudizi che dà del Pd» perché «chi gioca a indebolire il Pd indebolisce la costruzione dell’alternativa».

L’ex premier non si impressiona: «Quando sarà il momento di definire un’alternativa di governo, ci confronteremo per verificare e faremo un progetto di alternativa con le altre forze solo sulla base di un programma preciso, dettagliato, chiaro e coerente». Nel frattempo botte da orbi.

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