Come ho spiegato nel mio libro Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, l’idea per cui ciascuno di noi possieda un io interiore autentico che esige rispetto e riconoscimento è circolata molto a lungo nel pensiero occidentale. Tali identità sono diversificate, multiple e onnipresenti. D’altra parte, la politica identitaria tende a focalizzarsi su una caratteristica fissa, come razza, etnia o genere. Queste caratteristiche sono viste non semplicemente come una delle tante appartenenti a un individuo, ma piuttosto come una componente essenziale dell’io interiore che esige riconoscimento sociale.

Vi sono molte parti del mondo in cui la politica identitaria è fortemente pronunciata. Balcani, Afghanistan, Myanmar, Kenya, Nigeria, India, Sri Lanka, Iraq, Libano e altri paesi sono divisi in gruppi etnici o religiosi nettamente demarcati, e la fedeltà a identità circoscritte spesso prende il sopravvento su identità nazionali più vaste. La politica identitaria rende il liberalismo difficile da realizzare in società come quelle e, come vedremo nel capitolo 9, discuterò delle strategie politiche usate per conciliare le esigenze di riconoscimento di diversi gruppi.

Stati Uniti e politica identitaria

Negli Stati Uniti la politica identitaria è partita da sinistra, dove gruppi marginalizzati come gli afroamericani, le donne, i gay e altri hanno cominciato a rivendicare pari riconoscimento attraverso i movimenti sociali degli anni Sessanta. È stata un potente strumento di mobilitazione che ha contribuito a sviluppare i diritti di quelle comunità e ha permesso agli individui di capire quanta ingiustizia e disuguaglianza avessero sofferto e quanto avessero in comune con altri membri del loro gruppo.

In principio, la politica dell’identità apparve sulle prime come uno sforzo per realizzare la promessa del liberalismo, che predicava una dottrina di uguaglianza universale e di pari protezione della dignità umana davanti alla legge. Le effettive società liberali, però, mancarono pesantemente di mostrarsi all’altezza di questi ideali.

Dopo la guerra civile e la ratifica del tredicesimo, quattordicesimo e quindicesimo emendamento, in molte parti degli Stati Uniti erano ancora profondamente radicati comportamenti che portavano alla segregazione e a una pesante disuguaglianza di opportunità per gli afroamericani. Le donne non ebbero il diritto di voto fino agli anni Venti in gran parte delle democrazie liberali e furono in ampia misura escluse dal lavoro fino agli anni Sessanta. L’omosessualità fu criminalizzata in gran parte delle democrazie e, per un periodo ancora più lungo, gay e lesbiche rimasero esclusi dalla società. A livello internazionale, il dominio coloniale di buona parte del mondo continuò fino a ben dopo la Seconda guerra mondiale, portato avanti dalle maggiori potenze liberali come la Gran Bretagna e la Francia.

Da tempo immemore le donne hanno dovuto sopportare tutto un ventaglio di torti, che va dalle molestie sessuali fino allo stupro e altre forme di violenza, e la situazione si è resa ancora più critica dopo l’ingresso in massa nel mercato del lavoro a partire dagli anni Sessanta. Nella maggioranza dei casi questi torti sono stati sopportati dalle donne in forma privata, almeno fino alla nascita del movimento #MeToo, che, come indica l’hashtag, rivela quanto le molestie siano un’esperienza comune condivisa da un ampio numero di donne.

È stata questa mutevole percezione dell’esperienza condivisa a far sì che un movimento politico riuscisse a cambiare leggi e norme sull’interazione tra donne e uomini. Analogamente, gli afroamericani sono stati, e continuano a esserlo, vittime di arresti e incarcerazioni in modo sproporzionato, hanno ricevuto sentenze più pesanti rispetto ai bianchi per crimini equivalenti, e sono stati a lungo soggetti ad abusi quotidiani come fermi di polizia e perquisizioni che ai bianchi non toccano. In un sistema politico democratico, l’unico modo con cui si può porre rimedio a tale disuguaglianza di trattamento è l’azione politica: i cittadini, sia neri sia bianchi, devono capire la natura del razzismo e mobilitarsi per esigere un’azione politica che lo combatta.

Intesa in questo senso, la politica dell’identità cerca di completare il progetto liberale e raggiungere quella che auspicava essere una società “cieca ai colori”. È stato sotto questa bandiera che il movimento dei diritti civili degli anni Sessanta ha messo fine alla segregazione e ha prodotto fondamentali mutamenti legali come il Civil rights act e il Voting rights act. Mentre il movimento cresceva, gli attivisti cominciarono a mettere in discussione leggi discriminatorie in tutto il sud e le azioni brutali di polizia e vigilanti cominciarono a infiammare l’opinione pubblica. L’obiettivo dei leader del movimento, come Martin Luther King, era semplicemente che gli afroamericani fossero inclusi pienamente nella più ampia identità nazionale come promesso dal quattordicesimo emendamento.

Con il passare del tempo, però, la critica è passata dal mettere in rilievo l’incapacità del liberalismo di essere all’altezza dei propri ideali, a discutere le premesse della dottrina liberale e le idee liberali di per sé. Questa critica ha preso di mira l’enfasi sull’individualismo, le affermazioni sull’universalità morale e il rapporto con il capitalismo.

Critica del liberalismo

In anni recenti si è assistito a un clamoroso scontro negli Stati Uniti sulla “teoria critica della razza” e altre teorie relative all’etnia, al genere, alla preferenza di genere eccetera. Gli esponenti principali della teoria critica oggi sono divulgatori e attivisti politici più che seri intellettuali con argomenti solidi, e i loro oppositori di destra (la grande maggioranza dei quali non ha letto una sola parola della teo­ria critica) sono ancora peggio, ma la teoria critica ha compiuto una seria e circostanziata analisi dei princìpi sottostanti al liberalismo, ed è importante risalire alle sue origini per comprenderla.

Le sue versioni più estreme sono passate da una critica della pratica liberale a una critica della sua essenza, cercando di promuovere un’ideologia alternativa illiberale. Ancora una volta, vediamo che le idee liberali vengono tese fino a strapparsi.

Uno dei precursori della teoria critica fu Herbert Marcuse, soprattutto per il suo libro del 1964, L’uomo a una dimensione, e il suo saggio La tolleranza repressiva, che vennero usati come guida dalla successiva teoria critica. Marcuse sosteneva che le società liberali non erano davvero liberali e non proteggevano né l’uguaglianza né l’autonomia. Piuttosto, erano controllate da élite capitaliste che producevano una cultura consumistica che cullava la gente comune portandola a conformarsi alle sue regole. La libertà era un miraggio che si sarebbe potuto rendere reale soltanto creando una società radicalmente diversa: «Il problema di rendere possibile una tale armonia tra la libertà di ogni individuo con l’altro non è quello di trovare un compromesso tra i competitori, o tra la libertà e la legge, tra gli interessi generali e quelli individuali, il benessere comune e quello privato in una società stabilita, ma quello di creare la società in cui l’uomo non è più schiavo delle istituzioni che viziano l’autodeterminazione fin dagli inizi».

Analogamente, la libertà di parola non era un diritto assoluto: un discorso sbagliato non dovrebbe essere tollerato quando viene esercitato da forze repressive che difendono lo status quo.

Marcuse sosteneva, come facevano molti radicali della New Left in quel periodo, che la classe lavoratrice tradizionale aveva cessato di essere una forza potenzialmente rivoluzionaria, diventando invece controrivoluzionaria – in pratica, si era fatta comprare dal capitalismo – e proseguiva individuando nella sessualità un fattore determinante nella lotta per la liberazione dell’umanità. Marcuse rappresentava dunque un ponte critico tra il progressismo del Ventesimo e quello del Ventunesimo secolo, che sempre più ha definito la disuguaglianza non in termini di ampie classi sociali come la borghesia e il proletariato, ma in termini di gruppi identitari più ristretti basati su razza, etnia, genere e orientamento sessuale.

La critica sistematica dei princìpi sottostanti al liberalismo aveva numerose componenti distinte e iniziava con il rifiuto della premessa della dottrina dell’individualismo primordiale. Come Marcuse, i critici progressisti sostenevano che nelle società liberali esistenti gli individui non fossero realmente capaci di esercitare una scelta individuale. Teorici liberali come Hobbes, Locke e Rousseau, o Rawls nella sua «posizione originaria», collocavano in uno stato di natura individui isolati che scelgono di aderire al contratto sociale alla base della società civile.

Secondo le parole di John Christman: «Com’è noto, la filosofia politica occidentale nell’età moderna – dominata da quella che viene ampiamente definita teoria liberale – ha presunto che il modello di personalità da utilizzare in questi contesti è fondamentalmente individualistico. […] Inoltre, l’immagine che il cittadino ha della giusta linea politica non include alcun riferimento specifico ai marchi di identità sociale, come la razza, il genere, la sessualità, la cultura e così via, che molti individui potrebbero menzionare automaticamente nel descrivere se stessi. La persona modello, nella tradizione liberale, è mostrata come priva di connessioni fondamentali con altri individui passati o presenti o con fattori esterni a “lui”».

I teorici critici della prima ora come Charles W. Mills attaccarono Rawls per aver formulato una teoria della giustizia che mancava di trattare specificamente una delle più grosse fonti storiche di ingiustizia, il dominio di una razza su un’altra. Questo era un elemento proprio della metodologia di Rawls e non una sua carenza, naturalmente, considerando che la sua posizione originaria rende necessario privare gli individui di ogni caratteristica “contingente”. Tuttavia quel poco che rimaneva del soggetto autonomo divenne un punto debole della sua teoria. A questo proposito, Mills formò un sottoinsieme dei critici “comunitari” di Rawls, sostenendo che non c’era scelta individuale superiore a quegli attributi specifici dell’individuo come razza, genere o orientamento sessuale.

I critici del liberalismo hanno inoltre sostenuto che l’individualismo è un concetto occidentale che non si accorda con tradizioni maggiormente comunitarie di altre culture. L’individualismo, è stato detto, non ha mai messo radici nell’Asia orientale o meridionale, in medio oriente o nell’Africa subsahariana come ha fatto in Europa e in Nordamerica; la fede liberale nell’universalismo dei diritti umani individuali ha così rivelato un eurocentrismo con i paraocchi.

Gruppi sociali

Partendo da questa critica all’individualismo primordiale, i teorici critici sono andati avanti citando il fallimento del liberalismo nel riconoscere l’importanza dei gruppi. La teoria liberale riteneva che gli individui si sarebbero organizzati da sé in gruppi, come famiglie, compagnie, partiti politici, chiese o organizzazioni della società civile, il tutto su base volontaria. Da questo punto di vista, sostenevano i critici, il liberalismo non prendeva in considerazione il fatto che le società del mondo reale sono organizzate in gruppi involontari in cui la gente viene categorizzata in base a caratteristiche come razza o genere, caratteristiche su cui non hanno controllo.

Secondo le parole di Ann Cudd: «Noi siamo individui che fanno parte di gruppi sociali, ad alcuni dei quali scegliamo di appartenere mentre ad altri apparteniamo sia che decidiamo di farvi parte, potendo, sia che non lo decidiamo. Ma sociologi, filosofi e teorici hanno spesso offuscato questa immagine della vita sociale ignorando, riducendo o negando uno o entrambi i generi di gruppi sociali».

La tendenza liberale a ritenere che ogni partecipazione a un gruppo sia volontaria è insita nelle teorie dell’azione collettiva adottate dagli economisti neoclassici. Come abbiamo rilevato nel capitolo 3, i gruppi esistono solo per promuovere gli interessi dei loro membri. La teoria critica viceversa sostiene che i gruppi più importanti siano il prodotto del dominio di alcuni gruppi su altri.

Da questa osservazione derivava l’accusa che il liberalismo non fosse in grado di garantire una sufficiente autonomia ai gruppi culturali e cercasse di imporre una cultura radicata nei valori europei a popolazioni dotate di tradizioni differenti. I gruppi vengono definiti non semplicemente dalla loro vittimizzazione, ma dalle profonde tradizioni che li tengono insieme. Il pluralismo liberale dovrebbe quindi riconoscere non solo l’autonomia degli individui, ma l’autonomia dei gruppi culturali che costituiscono ogni data società. L’autonomia culturale sta nella capacità di un gruppo di controllare istruzione, lingua, usi e le narrative che definiscono il modo in cui uno specifico gruppo intende le sue origini e la sua identità attuale.

Teoria del contratto

Una terza critica al liberalismo aveva a che fare con il suo uso della teoria del contratto. Hobbes, Locke, Rousseau e Rawls si riferiscono tutti esplicitamente a un contratto sociale con il quale una società giusta può venire formata tramite un volontario accordo tra i suoi membri. Tra loro ovviamente vi sono differenze: Hobbes ritiene che gli individui possano sottomettersi volontariamente a una monarchia, mentre Locke è convinto che il contratto debba essere sostenuto dall’esplicito consenso del governato. Tutti però ipotizzano che le parti del contratto siano costituite da individui capaci di esercitare la scelta.

Nel libro Il contratto sessuale l’autrice femminista Carole Pateman attaccava i presupposti volontaristici della teoria liberale classica. Rilevava che molti dei primi teorici del contratto credevano nella legittimità di un contratto schiavista: se un individuo debole si trovava di fronte a una scelta tra una vita in schiavitù e la morte per mano di una persona più forte, quell’individuo poteva scegliere volontariamente di essere schiavo. Il ragionamento di Pateman si rifaceva alla critica marxista del concetto di “lavoro libero” nelle società capitalistiche: contratti formulati tra individui di livelli di potere molto diversi non erano equi semplicemente in quanto solo apparentemente volontari, e notava come ciò si applicasse in particolare alle relazioni sessuali.

A John Locke, nel suo Trattato sul governo, era stato tradizionalmente attribuito un attacco alla teoria patriarcale di Robert Filmer, che basava esplicitamente l’autorità monarchica sull’autorità del padre sulla sua famiglia. Ma, aggiungeva Pateman, Locke distingueva la società politica dalla società naturale della famiglia: la prima era volontaria e consensuale, mentre la seconda rimaneva naturale e gerarchica. La nuova società politica così formata, sosteneva lei, liberava solo i figli: «Il diritto sessuale o diritto coniugale, che è il diritto politico originario, venne quindi completamente nascosto. L’occultamento era realizzato così alla perfezione che teorici e attivisti politici contemporanei possono “dimenticare” che la sfera privata contiene anche – e in questo ha la sua genesi – una relazione contrattuale tra due adulti. Non hanno trovato niente di sorprendente nel fatto che nel patriarcato moderno le donne, a differenza dei figli, non emergono mai dalla loro “minore età” e dalla “protezione” degli uomini; noi non interagiamo mai nella società civile sulla stessa base degli uomini».

Le donne erano escluse dal contratto e non potevano essere incorporate nella società civile perché «sono prive per natura delle capacità necessarie a diventare individui civili».

Charles Mills procedette estendendo questa critica alla teoria del contratto anche alla razza e al genere. La Costituzione statunitense era un esplicito contratto che istituiva il nuovo paese, ma era basata sull’esclusione degli afroamericani dalla cittadinanza e, ai fini della ripartizione, li contava esplicitamente come tre quinti di una persona. Mills sosteneva che, come nel caso del contratto sessuale, questa esclusione era celata alla vista tra la reverenza celebratrice che i cittadini bianchi degli Stati Uniti riservavano alle proprie origini.

Capitalismo e controlli

Una quarta critica al liberalismo affermava che la dottrina non poteva essere dissociata dalle forme più rapaci del capitalismo e che quindi avrebbe continuato a produrre sfruttamento e pesanti disuguaglianze. Nei capitoli 2 e 3 ho sostenuto che il neoliberismo fosse una particolare interpretazione del liberalismo economico prevalso negli Stati Uniti e in altri paesi in un particolare momento storico. Samuel Moyn tra gli altri dice che questa connessione non era contingente ma inevitabile: il liberalismo con la sua enfasi sull’individualismo e i diritti di proprietà conduce inevitabilmente al neoliberismo.

I teorici critici attaccarono il liberalismo per la sua stretta associazione con il colonialismo e per il dominio europeo sui non bianchi. La teoria postcoloniale, come è stata articolata da autori quali Frantz Fanon, ha attaccato gli atteggiamenti di superiorità culturale che svalutavano i non occidentali e le loro prospettive. Legava inoltre il colonialismo al capitalismo. I portoghesi e poi i britannici istituirono un sistema di commercio triangolare nel nord Atlantico nel Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, sistema in cui lo zucchero, il rum e più tardi il cotone venivano scambiati con manufatti e schiavi. Il cotone, il cui contributo fu fondamentale rendendo possibile la Rivoluzione industriale britannica, veniva raccolto da schiavi neri nell’America meridionale. 

Pankaj ­Mishra ha scritto di come il liberalismo fu guardato con diffidenza soprattutto per le posizioni favorevoli al dominio europeo su altri popoli da parte di esponenti di spicco come John Stuart Mill o Alexis de Tocqueville. Secondo Mishra, i liberali occidentali credevano nell’universalità dei valori liberali e nel modello degli esseri umani come individui autonomi solo perché non si rendevano conto delle tradizioni e dei presupposti molto diversificati dei territori da loro ­conquistati.

Una critica finale al liberalismo è più procedurale che sostanziale. Poiché le società liberali limitano il potere tramite controlli e contrappesi, è molto difficile modificare linee politiche o istituzioni. Quelle società si basano su provvedimenti e persuasione per effettuare cambiamenti, ma questi sono nel migliore dei casi veicoli lenti e nel peggiore un ostacolo permanente alla correzione di ingiustizie esistenti. Una società giusta richiederebbe una enorme e ininterrotta redistribuzione di ricchezza e potere, cosa a cui resisterebbero con foga i loro attuali detentori. Il potere politico dev’essere quindi esercitato a spese di quelle istituzioni di controlli e contrappesi.

Debolezze della critica

Gran parte della teoria critica va quindi ben al di là dell’accusare il liberalismo di ipocrisia e di incapacità di essere all’altezza dei propri princìpi, spingendosi a condannare la dottrina nella sua essenza. Diversi rami della teoria critica fanno uso di varianti dell’argomentazione di Marcuse per cui i regimi apparentemente liberali in realtà non lo sono affatto ma riflettono gli interessi di strutture di potere nascoste che dominano e traggono beneficio dallo status quo. L’associazione del liberalismo con diverse élite dominanti, siano esse di capitalisti, maschi, bianchi o persone comuni, non è un fatto contingente della storia; il dominio, anzi, è un elemento essenziale della natura del liberalismo e il motivo per cui quei diversi gruppi sostengono l’ideologia liberale.

Nessuna di queste critiche, però, coglie nel segno, anzi attribuiscono una colpa per associazione. Nessuna delle critiche al liberalismo più diffuse è in grado di dimostrare in che modo la dottrina sia essenzialmente errata. Prendiamo l’accusa per cui il liberalismo sia troppo individualistico e una contingenza storica tipica delle società europee. Nel capitolo 3 ho spiegato come questa accusa possa essere giustamente mossa alla teoria economica neoclassica contemporanea, che sostiene la superiorità dell’interesse individuale come caratteristica umana universale. Ma il fatto che gli esseri umani abbiano tra le proprie caratteristiche una spinta alla socialità oltre a lati marcatamente egoistici può essere facilmente inserito in una più ampia interpretazione del liberalismo.

La socievolezza umana assume una vastissima varietà di forme, tutte virtualmente autorizzate a fiorire nelle attuali società liberali. La vita associativa privata è cresciuta enormemente con le società che diventano più ricche e possono devolvere una maggior quantità del proprio surplus economico ad attività socialmente orientate. Gli stati liberali moderni hanno fitte reti di volontariato, in cui le organizzazioni della società civile garantiscono appartenenza comunitaria, servizi sociali e sostegno ai loro membri e alla comunità politica in senso più vasto. Né il liberalismo ha impedito lo sviluppo dello stato come luogo di aggregazione. Gli stati sociali e le protezioni sociali sono cresciuti enormemente dal tardo Diciannovesimo secolo in poi, al punto che consumano quasi la metà del Pil in molte democrazie liberali avanzate.

In effetti l’individualismo ha radici storiche in determinate parti dell’Europa, radici che precedono di quasi un millennio l’emergere del moderno liberalismo. Come si è notato nel capitolo 3, seguiva una serie di regole che, introdotte dalla chiesa cattolica, proibivano il divorzio, il concubinaggio, l’adozione e il matrimonio tra cugini, il che rendeva molto più difficile per reti familiari allargate conservare la proprietà di generazione in generazione.

Ma è difficile sostenere che l’individualismo sia una caratteristica “bianca” o europea. Una delle sfide più antiche delle società umane è il bisogno di andare al di là della parentela come fonte di organizzazione sociale, verso forme più impersonali di interazione sociale. Molte società non europee hanno messo in campo una serie di strategie per ridurre il potere dei gruppi familiari, come l’uso di eunuchi in Cina e nell’impero bizantino, o la pratica mamelucco-ottomana di istruire come soldati e amministratori gli schiavi catturati, che venivano scelti in base alla capacità e ai quali veniva proibito di formare famiglie proprie. La meritocrazia era semplicemente un’altra strategia efficace per evitare di impiegare un cugino o un figlio in un lavoro per il quale essi fossero palesemente poco qualificati, scegliendo invece l’individuo più adatto a eseguire il compito in questione.

Alcuni sostenitori contemporanei dell’autonomia culturale suggeriscono che la misurazione delle capacità quantitative e qualitative di ragionamento, eseguita nella pratica attraverso esami standardizzati, risente di pregiudizi culturali nei confronti delle minoranze razziali. Il fatto che alcuni gruppi razziali ed etnici riescano complessivamente meglio di altri in varie attività indica che la cultura è davvero un importante fattore di successo. Ma la soluzione a questo problema dovrebbe essere la rimozione degli ostacoli culturali al successo e non la svalutazione del criterio stesso di successo.

Il punto di vista secondo il quale la meritocrazia è in qualche modo associata all’identità bianca o all’eurocentrismo riflette il provincialismo dell’odierna politica identitaria. Meritocrazia ed esami standardizzati hanno evidenti radici anche in culture non occidentali. Il sistema degli esami venne adottato in Cina perché i governanti sotto la pressione di un’intensa competizione militare si accorsero di non poter reclutare, se non ricorrendo a quel sistema, luogotenenti e amministratori competenti. Furono usati nello stato di Qin prima che nel 221 a.C. nascesse la Cina moderna, e divennero un elemento regolare di quasi tutte le successive dinastie cinesi.

In effetti, la preparazione dei giovani a un esame competitivo standardizzato è una delle più antiche e radicate tradizioni della cultura cinese, adottata molti secoli prima che diventasse la norma nelle amministrazioni occidentali. I governanti cinesi si trovavano di fronte a condizioni strutturali e ambientali analoghe a quelle delle loro controparti della prima modernità europea e idearono istituzioni sociali comparabili, nonostante la lontananza fisica e le differenze culturali.

Così, mentre sembrerebbe essere il prodotto storico della civiltà occidentale, l’individualismo liberale ha dimostrato di possedere una forte attrattiva verso persone di svariate culture, una volta che queste abbiano sperimentato la libertà che apporta. La vita economica moderna, inoltre, dipende da individui che si liberano dai restrittivi legami comunitari che caratterizzano le società tradizionali. In anni recenti milioni di persone hanno cercato di fuggire da quei luoghi verso giurisdizioni che promettono non soltanto maggiori opportunità economiche, ma anche maggiore libertà personale.

Gruppi e diversità culturale

L’accusa che ne deriva, secondo la quale gli stati liberali hanno fallito nel compito di riconoscere i gruppi sociali, è ampiamente errata. Gli stati liberali riconoscono e offrono status giuridico, e talvolta sostegno finanziario, a un’ampia varietà di gruppi, mentre sono più riluttanti a conferire diritti fondamentali a gruppi formatisi su base non volontaria ma su caratteristiche fisse come la razza, l’etnia, il genere o la cultura ereditata. Vi sono buone ragioni per questa riluttanza: ciascuno di tali gruppi contiene un’ampia varietà di individui i cui interessi e le cui identità possono essere molto diversi da quelli attribuiti al gruppo nel suo complesso. Esiste anche un serio problema per quanto riguarda la rappresentanza: chi è che parla a favore degli afroamericani, o delle donne, o dei gay come categoria?

Multiculturalismo può essere un termine relativamente neutrale, che non fa altro che descrivere la realtà di diverse società nelle quali gente di diversa formazione culturale vive insieme. L’autonomia individuale spesso implica la scelta di identità di gruppo e le società liberali hanno bisogno di difendere quella libertà. In società liberali come gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada, le grandi città godono di un altissimo grado di diversità culturale che aggiunge ricchezza e interesse alla vita quotidiana.

Ma ci sono tipi di autonomia culturale che non sono coerenti con i princìpi liberali. Un gran numero di comunità di musulmani immigrati discriminano le donne, i gay e quelli che intendono abbandonare la fede, discriminazioni che non rispettano le regole liberali sull’autonomia individuale. Il caso classico è quello di una famiglia musulmana che vuole costringere la figlia a un matrimonio combinato contro la sua volontà. In Europa questo ha posto gli stati nella necessità di decidere se proteggere i diritti della comunità di immigrati o i diritti individuali della donna in questione, e in questo caso una società liberale non dovrebbe avere altra scelta che schierarsi con la donna e ridurre l’autonomia del gruppo.

L’accusa che la teoria del contratto non rifletta gli equilibri di potere tra diversi gruppi sociali è esatta, ma anche in questo caso nelle società liberali tali questioni sono state corrette nel tempo. Come detto, in effetti esisteva un contratto razziale quando nacquero gli Stati Uniti, esemplificato dalla trentacinquesima clausola della Costituzione che non contava i neri come esseri interamente umani. Il documento era un contratto che rappresentava un compromesso tra partiti che intendevano preservare lo schiavismo e altri che volevano abolirlo o almeno restringerne la portata.

La questione morale dello schiavismo avrebbe continuato ad assillare la politica americana e fu, come notò Lincoln nel suo secondo discorso d’insediamento, la causa sottostante alla guerra civile. Gli emendamenti alla Costituzione passati all’indomani della guerra trasformarono profondamente la natura del contratto. Occorsero altri cento anni perché il contratto venisse realizzato giuridicamente e gli effetti persistenti del peccato originale dello schiavismo rimangono onnipresenti. Alcuni teorici della razza contemporanei sostengono che questo contratto razziale rimanga ancora in vigore e che alcune istituzioni esistenti continuino a basarsi sulla supremazia bianca. Ma non sono né il fatto in sé, né la natura del contratto stesso a trainare le attuali iniquità del razzismo.

Liberalismo e colonialismo

L’accusa che il liberalismo condurrebbe inevitabilmente al neoliberismo e a una forma sfruttatrice di capitalismo non tiene conto della storia del tardo Diciannovesimo e del Ventesimo secolo. In questo periodo i redditi della classe lavoratrice crebbero per diverse generazioni e la disuguaglianza economica, secondo la misurazione dei coefficienti Gini, calò fortemente durante la metà del Ventesimo secolo. Praticamente tutte le società liberali avanzate avevano posto in essere ampie protezioni sociali e diritti del lavoro dal tardo Ventesimo secolo in poi. Il liberalismo in sé non è una dottrina governativa autonomamente sufficiente: ha bisogno di essere abbinato alla democrazia perché si possano apportare correzioni politiche alle disuguaglianze prodotte dall’economia di mercato, e non c’è motivo di pensare che tali correzioni non possano verificarsi in futuro in una cornice politica ampiamente liberale.

L’opinione che liberalismo e capitalismo fossero in qualche modo sostanzialmente legati al colonialismo costituisce un fondamentale errore metodologico perché cerca di riunire un insieme eterogeneo di sviluppi complessi in un’unica teoria monocausale. Zucchero e cotone raccolti dagli schiavi svolsero un ruolo nello sviluppo economico della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, ma esiste una ricchissima letteratura specialistica sui motivi per cui l’occidente si distaccò dal resto del mondo in termini di sviluppo economico, di governo democratico e di potere militare. Da questo punto di vista, clima, geografia, cultura, struttura familiare, concorrenza e pura fortuna svolsero ruoli importanti.

Colonialismo e razzismo non spiegano come mai in altre parti del mondo non occidentale, per esempio in Asia orientale, gli uomini riuscirono a realizzare qualcosa di simile durante il tardo Ventesimo secolo e nel Ventunesimo. I primi teorici del capitalismo, come Adam Smith, si dichiararono esplicitamente contrari all’idea della necessità del dominio coloniale come via alla prosperità, con la motivazione che il libero commercio fosse economicamente molto più efficiente. E, in effetti, il mondo nel suo complesso è diventato molto più ricco in seguito allo smantellamento degli imperi coloniali.

Questo ha portato alcuni critici a dichiarare che il liberalismo ha semplicemente sostituito modalità formali di dominio con altre informali, poiché il libero scambio tra paesi dotati di poteri molto diversi tra loro non è davvero libero. Lo smantellamento dell’industria tessile indigena dell’India, una volta esposta alla concorrenza dei prodotti britannici nel Diciannovesimo secolo, viene spesso citato come esempio. Ma contro questi casi occorre guardare alla crescita dell’Asia orientale, che fu capace di raggiungere l’occidente o, come accade ora, minaccia di superarlo in alcuni settori, proprio perché ha accettato i termini dell’economia liberale globale.

Oggi esiste un’immensa industria di sviluppo internazionale che con i suoi trasferimenti di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri ha sostenuto budget statali in tutta l’Africa subsahariana. Si potrebbe affermare che alla fine questi sforzi non hanno avuto successo tranne che nel campo della salute pubblica, ma dal punto di vista morale non sono in alcun modo equivalenti agli sforzi del re belga Leopoldo di strappar via risorse dal Congo.

Vincoli sul potere

L’accusa finale al liberalismo riguarda i controlli e i contrappesi che i regimi liberali usano nell’esercizio del potere, i quali impediscono una radicale redistribuzione di potere e ricchezza. Questa accusa è tutto sommato valida. Un paese autoritario come la Cina potrebbe effettuare rapidamente cambiamenti radicali, come quando dopo il 1978 Deng Xiaoping ha aperto l’economia alle forze di mercato, mentre un mutamento così rapido delle istituzioni economiche fondamentali sarebbe inconcepibile in una Repubblica costituzionale come gli Stati Uniti. In alcuni settori della attuale sinistra progressista c’è stato un rinnovato interesse per gli scritti di Carl Schmitt, il teorico della giurisprudenza dell’inizio del Ventesimo secolo, che, tradizionalmente associato alla destra, si espresse a favore dell’esercizio di un potere esecutivo discrezionale.

Ma i vincoli liberali sul potere andrebbero visti come una sorta di polizza di assicurazione. Controlli e contrappesi esistono per impedire abusi autocratici di potere. L’assenza di vincoli costituzionali in Cina ha reso possibile non solo la riforma di Deng Xiaoping ma anche il disastroso grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale sotto Mao; mentre l’assenza di controlli e contrappesi oggi sta agevolando la centralizzazione della dittatura sotto Xi Jinping. Sempre in questi anni i controlli e i contrappesi dell’America hanno limitato la possibilità di effettuare quelle riforme auspicate dai giovani progressisti, ma hanno anche protetto il paese dagli abusi di potere tentati da Donald Trump.

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È tuttavia perfettamente possibile cambiare le regole istituzionali di una democrazia liberale allo scopo, per esempio, di eliminare l’ostruzionismo parlamentare. Ho sostenuto altrove che l’America è diventata una “vetocrazia”, nella quale le decisioni politiche sono estremamente difficili da realizzare a causa del gran numero di possibilità di veto che si sono accumulate nel sistema politico americano. Ma evitare del tutto di limitare il potere è sempre un’ipotesi pericolosa, perché non conosciamo in anticipo l’identità dei futuri leader.

È vero che storicamente le società liberali hanno colonizzato altre culture, discriminato gruppi razziali ed etnici entro i propri confini e assegnato alle donne ruoli sociali subordinati. Ma affermare che razzismo e patriarcato fossero insiti nel liberalismo vuol dire attribuire essenzialità storica a fenomeni contingenti. Il fatto che gli autoproclamati liberali in passato appoggiassero idee e politiche illiberali non significa che la dottrina fosse incapace di cogliere e correggere questi sbagli, cosa che del resto lo stesso teorico critico della razza Charles Mills riconosce. In realtà era il liberalismo stesso a fornire la giustificazione teoretica per la sua propria correzione. Fu l’idea liberale che «tutti gli uomini sono creati uguali» a permettere ad Abraham Lincoln di esprimersi contro l’aspetto morale dello schiavismo prima della guerra civile, e fu quella stessa idea ad animare l’allargamento della piena cittadinanza a tutte le persone di colore durante l’epoca dei diritti civili.

L’accusa finale mossa dai progressisti al liberalismo ha a che fare con le modalità di pensiero a esso intimamente associate fin dall’Illuminismo, cioè quelle della scienza moderna. È in questo campo che la minaccia al liberalismo è oggi più acuta che mai, per cui adesso sposteremo l’attenzione su un insieme più ristretto di istituzioni legate alla conoscenza e alla libertà di parola.


Il testo in queste pagine è un estratto dal libro di Francis Fukuyama, Il liberalismo e i suoi oppositori, (Utet, 2022). Traduzione di Bruno Amato e Maria Peroggi.

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