- La guerra ferma la globalizzazione e divide il mondo. Nell’illusione di risolvere il conflitto, gli stati si rivolgono a quelle vecchie ricette ideologiche che hanno creato le condizioni per la violenza.
- Ma va trovata una tregua e poi iniziato un negoziato: lo schieramento con gli aggrediti è naturale e condivisibile, ma per uscire dalla logica della guerra occorre ragionare lucidamente.
- Come un ingranaggio inarrestabile, la guerra, anche quella che appare più “giusta”, tende a diventare permanente e creare più mali di quelli che è in grado di eliminare.
Questo articolo fa parte dell’ultimo numero di SCENARI, la pubblicazione geopolitica di Domani in uscita il 24 febbraio. Lo trovi in edicola oppure in digitale sulla nostra App. Abbonati per leggerlo e iscriviti alla newsletter per restare aggiornato sui prossimi numeri.
La guerra in Ucraina ha fermato definitivamente la globalizzazione. Già messa in discussione soprattutto in occidente per i suoi effetti negativi sul mercato del lavoro globale e sulla distribuzione delle produzioni e delle filiere mondiali, la globalizzazione non può sopravvivere in un contesto in cui a parlare sono le armi.
Si è sempre detto che la guerra fa male ai commerci ma in questo caso li interrompe brutalmente, com’è accaduto alla nuova Via della seta realizzata dalla Cina, almeno per la sua parte terrestre che attraversa l’Europa.
Intere filiere produttive vedono minacciate la propria esistenza per il brusco aumento dei costi dell’energia e il collasso del sistema dei trasporti in tutti i settori.
L’inflazione mondiale non è mai stata così alta dall’inizio degli anni Novanta e tutte le previsioni di crescita post pandemia sono riviste al ribasso.
Si calcola che le sanzioni imposte alla Russia per aver aggredito l’Ucraina avranno conseguenze durature riducendo ulteriormente le possibilità della ripresa globale. Certo non tutti i paesi saranno ugualmente penalizzati: alcuni gioveranno dell’accorciarsi delle catene del valore.
Il movimento generale tende verso una sorta di reshoring, cioè di ritorno a casa delle produzioni che erano state appaltate all’estero grazie ai costi minori della manodopera o delle materie prime.
Dalle mascherine ai semiconduttori, molti paesi stanno tentando di rimettersi a produrre in proprio ciò che avevano delegato altrove. Ciò partecipa all’aumento dei prezzi (il costo del lavoro – com’è noto – non è uguale ovunque) ma rimette in moto settori che sembravano abbandonati.
Si parla anche dell’accorciamento delle filiere attraverso stati amici o liked minded, quelli che la pensano allo stesso modo. Così i sostenitori della “organizzazione delle democrazie” che prenda il posto dell’Onu, che non erano riusciti a convincere all’inizio degli anni Novanta trovano ora nuovo impulso nello sconnesso e fragile quadro multilaterale.
Se ne è visto un assaggio con l’esclusione della Russia dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. La competizione cambia: nel quadro della ristrutturazione della manifattura, ad esempio, in prospettiva l’Italia dovrà vedersela molto meno con la concorrenza cinese o asiatica e molto di più con quella polacca, romena o messicana.
Anche nel comparto agricolo stanno avvenendo mutamenti notevoli in Europa, con la rimessa a coltura di terreni, il superamento delle regole di rotazione delle colture suggerite dall’Eu e il tentativo di orientare alcune produzioni verso l’Africa.
Energia
La guerra pone anche il problema dell’approvvigionamento di energia: come fare a meno del gas russo e in quanto tempo? Sembra che dopo un anno di guerra l’Europa abbia trovato il modo di sostituirlo.
Particolarmente in Germania e Italia il dibattito è molto acceso: occorre evitare di dare un colpo di grazia al settore industriale già in sofferenza per i due anni di pandemia. La sostituzione con il gas americano, canadese, mediorientale, africano o caucasico è in corso ma necessita di tempo e, soprattutto, costa molto di più, fino a otto volte tanto.
Mentre la Cina ha cercato di interpretare a suo vantaggio (riuscendosi largamente) tutti gli strumenti della globalizzazione allargando il suo raggio d’azione commerciale all’intero pianeta, gli Stati Uniti, già con la presidenza Obama e ancor più con quella Trump, si sono dimostrati sempre più scettici sull’apertura globale, prendendo in seria considerazione le conseguenze negative che quest’ultima stava avendo sul loro paese e sui loro alleati più stretti.
In Europa la Germania è stata per lungo tempo sostenitrice della globalizzazione senza limiti, con un atteggiamento al contempo competitivo e cooperativo con Pechino.
Da qui le asperità nelle relazioni tra Berlino e Washington, soprattutto per il fatto che il governo tedesco avesse incluso anche Mosca nella sua strategia espansiva, a causa del bisogno di energia della sua manifattura.
Tali frizioni sono ancora in atto. Occorre tener conto che alla Russia non è mai apparso soddisfacente essere considerata soltanto come un provider di gas e petrolio e ha perseguito la spasmodica ricerca di un ruolo geopolitico globale rilevante che la ponesse in una relazione bilaterale alla pari con gli Stati Uniti che, dalla fine dell’Urss mai più concessa.
In questa tensione attorno agli effetti della globalizzazione, sia il commercio che il mercato finanziario e quello delle tecnologie sono divenuti sempre più “politici”, sottoposti cioè alle tensioni geostrategiche in atto.
Sulla globalizzazione non c’è stata politicamente una concordanza di vedute: se per la Russia (come in seguito per la Cina) è stata l’opportunità per issarsi al livello del cosiddetto primo mondo occidentale, quest’ultimo non ha voluto riconoscere tale possibile parità.
C’erano valide ragioni per questo, in particolare l’idea che la democrazia è il sistema di governo più efficace e più rispettoso della dignità della persona e dei diritti umani.
Tuttavia ciò celava anche un’idea di superiorità inaccettabile per gli altri protagonisti. La deglobalizzazione in atto è uno degli effetti per tale mancato incontro che forse non avrebbe comunque potuto realizzarsi.
L’attuale fase del processo di destrutturazione e accorciamento delle catene del valore inizia con la ripresa di protagonismo della politica, a partire con il subordinare ogni scelta economica al vaglio della sicurezza nazionale.
Non possedere produzioni proprie nei settori considerati vitali per la salvaguardia interna sta provocando il rimpatrio di intere produzioni ritenute sensibili. La globalizzazione si è così trasformata progressivamente da quel flat world – mondo piatto – descritto da Thomas Friedman, in un campo da gioco minato, competitivo e ostico, fino a diventare una vera e propria “macchina di conflitti” secondo la definizione di Alessandro Aresu.
Nel mondo piatto tutto sarebbe dovuto avvenire senza avversità: catene lunghe o corte a seconda dei prezzi e della facilità di spedizione, nessuna concentrazione di produzioni, estrema volubilità delle scelte, niente stock in favore della gestione immediata delle merci, in una parola l’ottimizzazione dei costi e della gestione della distribuzione.
Tale orizzontalità ha favorito l’Asia, e particolarmente la Cina che si è proposta come “fabbrica del mondo”. A quell’epoca quasi nessuno aveva obiettato che lasciare il monopolio di alcune produzioni ad un paese autoritario avrebbe potuto creare dei problemi.
Tutt’al più ci si lamentava della concorrenza sleale sul costo del lavoro. La pandemia ha dimostrato che tale sistema poteva entrare facilmente in crisi alla prima vera emergenza: abbiamo assistito alla “battaglia delle mascherine” con cui anche gli Stati membri della stessa Ue si sono sfidati a colpi di sequestri.
Improvvisamente i paesi hanno avuto la sensazione di poter contare solo su sé stessi: in momenti di emergenza la globalizzazione aveva improvvisamente smesso di funzionare.
Con la guerra in Ucraina la diffidenza verso tale sistema è cresciuta ancor di più: è divenuto evidente che il binomio monopolio-autoritarismo può essere letale. Attualmente si generalizza il timore delle conseguenze delle concentrazioni produttive come, ad esempio, quella di semiconduttori tra Taiwan e Corea (zone a rischio conflitto) o quella di grano e mais tra Russia e Ucraina.
Sfiducia nel sistema
Siamo giunti ad una nuova svolta storica che chiude la fase iniziata con la caduta del Muro di Berlino. È pur vero che in quel periodo si era pensato che la democrazia sarebbe stata la conseguenza dell’apertura del commercio.
La democrazia liberale fondata sull’economia di mercato era considerata l’unico modello possibile: un mondo approdato alla “pax capitalistica” in cui gli Stati non avrebbero avuto interesse a farsi la guerra.
Ma la tesi di Friedman secondo la quale “due paesi che hanno entrambi un McDonald’s non si sono mai combattuti”, si è dimostrata falsa, anche se molta dell’interconnessione forgiata durante questi trent’anni proseguirà.
Ciò che verrà sicuramente meno è l’incondizionata fiducia che il sistema sia capace di produrre da solo pace e stabilità internazionale. Già con gli attentati del 2001 era apparso chiaro che molta parte del mondo non era interessata a farsi assorbire nel sistema globalizzato o perlomeno ne rifiutava le condizioni politico-culturali.
Non c’era solo l’islam radicale ad opporsi ma quest’ultimo incarnava quella grammatica della rivolta che già agita molti popoli. Va detto che numerose forme di tale islam che ci siamo abituati a chiamare jihadista, rappresentano il simbolo generalizzato del rifiuto di un mondo unipolare e la reazione a condizioni economiche inique.
Ad esso vanno aggiunte altri format di ribellione come i sovranismi, i populismi e tutti i modelli di identità separate e di secessione in atto oggi nel mondo.
Ciò che accomuna tali diversi tentativi è il rigetto per le élite globali che hanno il controllo del sistema economico-finanziario, che spesso non coincidono con le élite politiche.
Nel tempo l’occidente è rimasto spiazzato da tali rigetti perché pensava che sarebbe stato sufficiente il “vantaggio comparativo” concesso (a caro prezzo) alle altre regioni del mondo: consentire la delocalizzazione di milioni di posti di lavoro in cambio di un abbassamento generale dei costi.
Il resto del mondo non ha accettato lo scambio: si è appropriato delle produzioni concesse e ha voluto molto di più costruendo una propria identità politica alternativa alle democrazie liberali, fino alla pretesa cinese di giungere al primo posto globale.
L’occidente non si è reso subito conto che si stava indebolendo su due fronti: su quello interno perché la delocalizzazione ha importato dentro le sue mura rabbia e contestazione sociale; e su quello esterno perché concedendo opportunità commerciali stava accordando anche quelle politiche.
Si è aperta così la strada per modelli alternativi come quello nazionalistico della Russia, dell’India o della Turchia ma anche dell’Ungheria di Orbán o dell’America di Donald Trump.
Ritorno dell’antico
L’attuale fase declinante della globalizzazione si è trasformata per l’occidente – e in particolare per la sua politica estera – in una specie di Jurassic Park, dove improvvise contingenze estranee e caotiche paiono gestite da forze brutali e imprevedibili delle quali si era persa ogni memoria.
Qualcosa di antico è tornato alla superficie della storia, rendendola anarchica e nuovamente tragica come la guerra in Ucraina dimostra. Il “nuovo ordine mondiale”, promesso all’inizio degli anni Novanta e al tornante del Millennio, non si è mai realizzato.
L’occidente ha progressivamente perso peso fino a diventare meno rilevante. In medio oriente ora si impongono Russia, Iran o Turchia; in Asia la Cina è stata l’unica potenza a giovarsi degli effetti benefici delle libertà economiche mostrando sempre più assertività; in Africa dominano regimi autoritari e la democrazia fallisce, crescono flussi migratori incontrollati e rinascono vecchi conflitti; in America Latina il ciclo virtuoso si è fermato.
Tale fallimento ha fatto rinascere il populismo nazionalista in Europa, i cui sintomi generali sono paura e debolezza: si fanno muri, ci si isola e ci si lamenta della perdita di potere e prestigio.
Ma tutto ciò rappresenta un fake, vecchie ricette, già fallite e pericolose, che ottengono solo una crescita della tensione generale che diverrà prima o poi un boomerang. Tutto pare lecito per paura del declino. Com’è noto, la paura fa nascere mostri.
In Europa immigrazione e crisi dell’islam sono stati percepiti come segnali di declino incipiente. Da qui ulteriori reazioni di spavento e ostilità, il terrore degli europei di essere “rimpiazzati” da nuovi popoli alieni e aggressivi.
Da sempre gli spostamenti di popolazione hanno dato luogo a percezioni di “invasione” e di inquietudine, a qualunque latitudine. Vanno capiti ma non vanno né incitati né manipolati. L’incertezza del domani non è solo occidentale: è di tutti come la pandemia ha avvalorato.
La guerra in Ucraina è una minaccia per tutti, come la penuria alimentare sta dimostrando. In un mondo così incerto la maggioranza dei cittadini si pone la medesima domanda: che ne sarà di noi? Ci saranno sempre più guerre e instabilità? Nuovi attacchi terroristici? Nuovi movimenti eversivi? Nuove crisi economiche? L’insicurezza pervade tutti i continenti. Un mondo fluido e incerto non è facile da gestire per sistemi autoritari che sono sempre rigidi.
Malgrado la nostra percezione è invece il terreno giusto per le democrazie e per politiche come quella comune europea. Oggi le leadership europee dovrebbero avere il coraggio di cimentarsi sul grande dossier della pace in Ucraina, secondo lo stesso interesse europeo.
Conflitto permanente
Nel frattempo – mimetizzata – la guerra ucraina prosegue e cerca di creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. È questa l’ambizione massima: un mondo sempre in guerra, scosso da scontri, crisi o almeno contrapposizioni.
Occorre concentrare l’attenzione sulla guerra stessa, sulla sua atroce essenza: essa non è soltanto uno strumento per affermare qualcosa (un’idea, una politica, un disegno strategico giusto o ingiusto che sia) ma è soprattutto un ingranaggio che si impadronisce del destino umano togliendogli il libero arbitrio.
Quando si è in guerra, infatti, le scelte sono ridotte all’osso: combattere o perire. Per chi subisce le conseguenze del conflitto l’unica soluzione è tentare di sopravvivere, come accade oggi a tanti paesi attanagliati dalla crisi energetica o alimentare.
È la guerra il vero nemico: rappresenta la follia del male che va arrestato al più presto. Più il conflitto dura e più si pongono le condizioni per quello successivo, cioè del ciclo infinito delle vendette. Ogni guerra prolungata crea le condizioni di quella successiva.
Per capirlo basta un po’ di psicologia umana. Per questo va abbreviata e terminata quanto prima. Aver interrotto da circa vent’anni i processi di disarmo iniziati al tempo della distensione, ha portato all’aver di nuovo accettato la guerra come inevitabile compagna della storia umana.
È tempo di tornare alla ragionevolezza del never again del secondo dopoguerra e ricominciare a disarmarsi a vicenda. Come tutte le guerre, anche la guerra in Ucraina copre nefandezze di ogni tipo (come le terribili stragi di Irpin e Bucha) e trasforma i combattenti in peggio.
La guerra deturpa l’anima dei popoli che la fanno o la subiscono, anche di quelli che si difendono. L’esperienza insegna che i paesi che vi sono trascinati ne escono deteriorati, inaspriti, regrediti, degenerati. Per i cristiani si tratta di un terreno impraticabile: la guerra è sempre fratricida, nemica della vita umana, di ogni essere vivente e della natura: in una parola del pianeta intero, un male da abbreviare al più presto e ad ogni costo.
Su questo concordano anche i laici, Kant lo diceva in modo semplice: «La guerra elimina meno malvagi di quanti ne crea». Se ciò non è abbastanza convincente si pensi alle guerre fatte nell’ultimo trentennio: guerre nei Balcani, guerre del Golfo, Afghanistan, Siria, Libia, eccetera.
Nessuna di esse ha risolto qualcosa, né ha corrisposto alle ragioni invocate per iniziarle, ma ha solo peggiorato le situazioni, creando altro caos. Si tratta di un’osservazione oggettiva a cui non si può sfuggire. Laddove si sono sviluppati tali conflitti, oggi non c’è né ordine, né stabilità, né riconciliazione, né democrazia ma covano solo odio, rancore e spirito revanscista.
Quando esplodono i conflitti si è presi dall’abbaglio della guerra che risolve, della guerra giusta, per poi esserne sempre terribilmente delusi. Schierarsi è impulso comprensibile, soprattutto laddove c’è un’aggressione ingiustificabile come contro l’Ucraina. Subito dopo però occorre ragionare lucidamente.
La sorgiva simpatia per il popolo ucraino aggredito e il rispetto per la sua resistenza sono condivisibili. Più problematica l’idea di prolungare la guerra verso un’improbabile vittoria: oltre a moltiplicare le sofferenze dei civili, si rischia di cadere nelle mani di chi vuole renderla perenne e manipola il caos.
Tale ingranaggio è da evitare: non esiste nessun argomento convincente per il prolungamento, nemmeno quello della difesa della democrazia in Europa. La democrazia si difende davvero assicurando le ragioni (e la ragionevolezza) della pace anche di fronte all’aggressore, contenendo e poi spegnendo il suo infondato revanscismo vittimistico.
Alla fine occorrerà comunque convivere: non si convive in stato di perenne conflitto ma solo in pace. Questa è la lezione della storia europea e la ragione profonda della nascita dell’Unione europea.
Questo testo è tratto dal libro Trame di guerra e intrecci di pace. Il presente tra pandemia e deglobalizzazione, Edizioni SEB27
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