È il fronte dove più che altrove si sta palesando la battaglia tra un modello più tradizionale (e forse orizzontale) di gestione dei club e l’inesorabile avanzata del mercato. All’indomani del trionfo dell’ultradestra, i club di serie A hanno ufficialmente ribadito il loro statuto di associazioni civili
È il fronte dove più che altrove si sta palesando la battaglia tra un modello più tradizionale (e forse orizzontale) di gestione dei club e l’inesorabile avanzata del mercato. All’indomani del trionfo dell’ultradestra, su invito del presidente della federazione Chiqui Tapia, sostenitore di Sergio Massa e nemico dichiarato delle Società Anonime Sportive, i club di serie A hanno ufficialmente ribadito il loro statuto di associazioni civili.
Che l’insediamento di un presidente come Javier Milei, spesso paragonato a Donald Trump e Jair Bolsonaro, sia avvenuto proprio il 10 dicembre, nella Giornata mondiale dei diritti umani, a qualcuno è sembrato un paradosso, una farsa del destino. Farsesca, d’altronde, era l’idea di Milei di arrivare al Congresso a bordo della Cadillac V8 comprata da Juan Domingo Perón nel 1955, oggi parcheggiata al Museo della Casa Rosada. O la versione off the record secondo cui lo stesso Milei, dopo la definitiva vittoria elettorale, avrebbe cominciato a salutare il suo gabinetto (nel senso di staff) con un sonoro Compañeros! di peronista memoria.
In realtà, è dal 1983 che il passaggio di consegne tra presidenti argentini avviene nel giorno della Dichiarazione universale dei diritti umani. Una tradizione inaugurata da Raul Alfonsin, primo precario guardiano della primavera democratica, logorato dai sollevamenti dei militari carapintadas di fine anni Ottanta e poi fatto saltare (metaforicamente) da un paio di trappole tutt’ora di moda: scarsità di dollari e iperinflazione. Dilemmi presto risolti dal successore Carlos Menem (il miglior presidente di sempre, per Javier Milei), mediante la svendita dell’obsoleto ma succoso patrimonio statale e la parità peso/dollaro elaborata secondo i precetti suggeriti da Washington, noti come “Consenso”.
Tra set hollywoodiani, missioni Nato in Iraq e Balcani, traffico d’armi con Ecuador e Croazia, estradizione di criminali nazisti radicati in Patagonia e attentati alla comunità ebraica di Buenos Aires, l’Argentina faceva quindi il suo meritato ingresso nella modernità.
Pizza, fútbol & champagne
Il messaggio di allora non era troppo diverso da quello di oggi: dopo anni di buio, torniamo nel mondo che conta. A pensarci bene, una delle poche frontiere in grado di resistere alla magia privatizzatrice dell’epoca fu quella del fútbol. Dove i club, nonostante tutto, continuano a essere associazioni civili senza fine di lucro, con dirigenti eletti tramite il voto dei soci. Nuclei di aggregazione sociale e culturale legati al barrio, a un determinato territorio, la cui funzione si rivela cruciale soprattutto nelle zone più umili e marginali. Nel 1993, due anni prima di assumere la presidenza del Boca Juniors, la piattaforma che lo porterà a essere prima Governatore di Buenos Aires (2007-2015) e poi presidente della nazione (2015-2019), l’ingegnere Mauricio Macri offriva 15 milioni di dollari per comprare il club Deportivo Español, spostarlo a Mar del Plata, a 400 km di distanza, e farlo allenare – diceva – da Cesar Luis Menotti. Nel contesto di crisi economica di fine anni Novanta, l’assalto delle cordate private si estese presto ai club più grandi: tra questi, il Racing di Avellaneda, fallito nel 1999 e rilevato dalla Società Anonima Blanquiceleste – che tra il 2000 e il 2007 accumula però debiti, salari non pagati e cause per assegni scoperti – e il San Lorenzo di Almagro, che durante l’ultima dittatura militare si era già visto espropriare lo storico stadio conosciuto come Gasometro, nel quartiere Boedo, al posto del quale sarebbe poi sorto un ipermercato Carrefour. Il 30 novembre 2000 (da allora, la Giornata del hincha del San Lorenzo), riuniti fuori dall’attuale stadio Pedro Bidegain, negli angoscianti sobborghi del Bajo Flores, i tifosi del Ciclón impedivano la cessione del club alla compagnia svizzera Isl, fondata da Horst Dassler nel 1982 e poi collassata nel 2001.
Non è un caso che l’unico tema su cui Javier Milei abbia evitato di esporsi durante la sua delirante campagna elettorale sia stato proprio il fútbol. Mentre il suo avversario Sergio Massa si azzardava a promettere l’inverosimile ritorno allo stadio dei tifosi ospiti dopo 10 anni di trasferte teoricamente vietate (sul modello di quanto proposto ora in Francia), di quel Loco con la motosega maltrattato da piccolo, al massimo, si ricordava – quasi con tenerezza – il passato da portiere nelle giovanili del Chacarita.
Almeno fino a quando i media economici come El Cronista hanno cominciato a indicare la tanto sbandierata dollarizzazione come la chiave per il necessario sbarco di investimenti privati nel finora autarchico calcio nazionale. Più o meno lo stesso tono con cui, nel 2015, quella stessa stampa di settore prevedeva, grazie all’apertura del mercato promessa dal futuro presidente Macri, una provvidenziale “pioggia di inversioni”, purtroppo mai arrivata.
La battaglia della Boca
Se in tempi ancora non sospetti c’era chi affermava che Milei fosse in realtà la motosega di cui Macri aveva bisogno per applicare le riforme di shock economico risultate impraticabili durante il proprio mandato, oggi non sembra fuori luogo pensare che l’imminente cambio di governo possa costituire il vettore di una progressiva privatizzazione del fútbol argentino. O per lo meno, la premessa di un progetto più solido, le cui basi si possono rintracciare nelle consulenze prestate nel 2017 dal presidente della Liga spagnola Javier Tebas, riguardo un’eventuale Superliga argentina, o in quel precoce e maldestro tentativo del 2001, quando l’imperterrito Macri, forte del successo internazionale del suo Boca Fashion, chiese al Comitato Esecutivo dell’Afaa di mettere ai voti il tema delle Società Anonime Sportive. Mozione allora rifiutata per 38 voti a 1. Il suo. Ancor meno casuale, col senno di poi, il fatto che il primo punto di contatto tra Javier Milei e Mauricio Macri, nell’intervallo tra il primo round elettorale di ottobre e la resa dei conti di novembre, sia stata l’alleanza contro Juan Roman Riquelme in vista delle elezioni interne al Boca Juniors. Elezioni in cui Riquelme, massimo idolo della mistica Xeneize, era dato naturalmente per favorito. Elezioni previste per il 2 dicembre e ora sospese, però, perché impugnate in extremis dall’opposizione guidata da Andrés Ibarra, economista formato a Stanford, a capo del fantomatico e kafkiano Ministero della Modernizzazione durante il governo Macri.
È questo dunque il fronte che più di ogni altro sta palesando la battaglia tra un modello più tradizionale (e forse orizzontale) di gestione dei club e l’inesorabile avanzata del mercato. All’indomani del trionfo dell’ultradestra, su invito del presidente dell’Afa Chiqui Tapia, sostenitore di Sergio Massa e nemico dichiarato delle Società Anonime Sportive, i club di serie A (seguiti da quelli delle serie minori) hanno ufficialmente ribadito il loro statuto di associazioni civili.
Proprio l’insistenza di Tapia nel suggerire ai ragazzi della Selección una presa di posizione pubblica contro le Società Anonime, sarebbe stata, si dice, una delle cause del malumore espresso da Lionel Scaloni nelle ultime conferenze stampa. Arduo dilemma, per i campioncini del mondo (per alcuni, non per tutti). Da un lato, la famiglia in cui si è cresciuti. Dall’altro, il piatto in cui si mangia.
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