- Sono oltre 5mila i migranti arrestati e ammassati nei centri di detenzione di Tripoli secondo le cifre diffuse dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) del ministero dell’interno libico.
- Secondo l’ufficio umanitario delle Nazioni unite in Libia, la maggior parte delle persone arrestate sono ora detenute arbitrariamente. Secondo Medici senza frontiere ci sono anche centinaia di donne in gravidanza e bambini appena nati.
- Il ministero dell’Interno del Governo di unità nazionale libico (Gun) l’ha definita un'operazione per «smantellare una rete dedita al traffico di droga, alcol e armi, e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina».
Sparatorie, fughe, morti e arresti di massa – razziando beni e danneggiando le abitazioni e rifugio di migranti e rifugiati – sono continuati per tutta la settimana in diverse zone di Tripoli, tra cui Ghout Sha’al e Janzour.
A condurre i raid sono stati uomini armati con le uniformi del ministero dell’Interno del Governo di accordo nazionale (Gnu) della Libia e di due milizie alleate: la Forza d’appoggio alla direzione per la sicurezza e l’Agenzia per la sicurezza pubblica, già note per le violenze contro i migranti e i rifugiati.
Bilancio: un morto e 15 feriti, e il rastrellamento di oltre 5mila uomini donne e bambini, parecchi dei quali registrati ufficialmente presso l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Le persone arrestate sono state trasferite in vari centri di detenzione della capitale libica. In una settimana è raddoppiato il numero totale di migranti e rifugiati detenuti: ci sono circa 10mila persone nei centri di Shara Zawiya, Ain Zara, al Mabani e Abu Salim.
Attaccati e umiliati
Nel centro di detenzione di al Mabani, lo scorso venerdì, almeno sei migranti sono stati uccisi e 24 hanno subito colpi di arma da fuoco. I team dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) hanno portato quattro feriti in una clinica privata e altri undici nell’ospedale locale.
«I migranti feriti erano stesi a terra in pozze di sangue», racconta il capo dell’agenzia delle Nazioni unite per la Libia, Federico Soda. «Ci hanno sparato mentre tentavamo di scappare», racconta Abiel un ragazzo eritreo di 20 anni ferito alla gamba e ora sdraiato su un cumulo di cartoni davanti all’ufficio delle Nazioni unite.
Insieme a lui ci sono decine di feriti da arma da fuoco, alcuni hanno ancora i proiettili nel corpo. «Ci hanno attaccato, umiliato, molti di noi sono rimasti feriti», racconta Halima Mohamed, una rifugiata sudanese del Darfur, una regione devastata dalla guerra. «Siamo tutti estremamente stanchi. Ma non abbiamo un posto dove andare», ha detto la 27enne in lacrime.
Centinaia, tra cui donne e bambini sfuggiti agli ultimi arresti, dormono per terra da diversi giorni davanti alla sede delle Nazioni unite a Tripoli.
Il governo nega
Sabato il ministero dell’Interno libico ha negato l’uso eccessivo della forza. «La maxi-operazione di sicurezza» a seguito della fuga dal centro di detenzione di Mabani è stata seguita «con professionalità e senza uso eccessivo della forza», ha scritto il ministero in una nota: «La fuga di centinaia di detenuti ha provocato la morte di un migrante e il ferimento di altri migranti oltre a numerosi agenti di polizia».
La prigione di al Mabani si trova a pochi passi dall’enorme complesso nella zona di Ghout Sha’al nella fabbrica di tabacco in disuso nell’ovest di Tripoli.
Qui ha sede l’Agenzia di pubblica sicurezza, principalmente formata da uomini di Zintan, formalmente integrati nell’apparato del ministero dell’interno. Nella prigione di al Mabani a Ghout Sha’al non c’è acqua potabile, le celle non hanno finestre.
In un solo metro quadrato, sono ammassate fino a tre persone ed è impossibile persino riuscire a sdraiarsi. Gli operatori di Medici Senza Frontiere (Msf) – che hanno portato assistenza medica dopo i rastrellamenti – hanno trovato migranti che non mangiavano da tre giorni, uomini svenuti per l’assenza di aria e bisognosi di cure urgenti.
Il direttore del centro di detenzione di al Mabani, Nour Eddine al Gritli, e una parte del suo staff tra cui Mustafa Asmar al Bashi, gestiva precedentemente il centro di detenzione di Tajoura, ora chiuso, ma noto per torture, lavoro forzato e sfruttamento.
Inoltre, secondo un rapporto interno dell’ufficio umanitario delle Nazioni unite in Libia, negli ultimi mesi centinaia di migranti sono spariti: «Molti minori dopo essere stati intercettati in mare e trasportati al centro di al Mabani sono spariti. Alcuni hanno chiamato dai telefoni dei trafficanti chiedendo un riscatto per essere rilasciati. Il 15 settembre, 120 siriani, compresi bambini e minori non accompagnati, sono stati trasferiti a Bir Ghanam, un nuovo centro situato a 60 km a sud di al Zawiya», si legge nel rapporto.
Intercettazioni in mare
La violenza quotidiana nei centri di detenzione è aumentata con l’impennata delle persone arbitrariamente detenute. Oltre ai rastrellamenti di Gergaresh sono aumentate le intercettazioni in mare.
Oltre 25mila persone sono state riportate in Libia e solo 133 richiedenti asilo sono stati evacuati dall'agenzia delle Nazioni Unite nel 2021. Dall’inizio di ottobre almeno 645 persone sono state intercettate in mare dai guardiacoste libici e riportate nei centri di detenzione.
I corridoi umanitari, che dovevano servire a svuotare i centri di detenzione, sono ancora bloccati. Così come i rimpatri volontari dell’Oim. Continua il ricatto del governo provvisorio di Tripoli sulle evacuazioni: «Il Dipartimento di controllo dell’immigrazione del ministero dell’interno libico insiste che i voli possono riprendere solo se utilizziamo una specifica compagnia di trasporto», ribadiscono le Nazioni unite.
In queste ore centinaia di persone sono accampate davanti al centro delle Nazioni unite di Tripoli per chiedere protezione. Protestano, e chiedono di essere evacuate. «Cosa facciamo? Non sappiamo dove andare», racconta Hassan, da oltre 3 anni registrato come richiedente asilo dalle Nazioni Unite.
«Per la nostra sicurezza, chiediamo di essere evacuati», è scritto su uno striscione. «La Libia non è un paese sicuro per i rifugiati», si legge in un altro. «Qui in Libia la nostra vita è in pericolo», ricorda ancora il 31enne sudanese.
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