- «L’attuale legge elettorale costringe a formare alleanze anche eterogenee, ma non è escluso che questa ricomposizione basata sull’omogeneità in politica estera possa avvenire in un secondo momento, dopo il voto».
- « Le coalizioni che vediamo oggi avranno molte difficoltà a restare compatte di fronte ai dilemmi che ci attendono in politica estera».
- «Non basta l’atlantismo: se ci aspettano anni di tensioni con la Russia, ci sarà bisogno anche di più Europa. E bisogna vedere che posizioni prenderà Meloni, una svolta europeista sarebbe ancora più sorprendente e rilevante di quella atlantista».
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Ukrainian servicemen fire to Russian positions from anti-aircraft gun in Kharkiv region, Ukraine, early Wednesday, Aug. 24, 2022. (AP Photo/Andrii Marienko)
Attenzione a sottovalutare le democrazie in guerra: hanno risorse insospettabili di cui le autocrazie non dispongono. La riscossa dell’esercito ucraino che riconquista l’area intorno a Kharkiv, con l’esercito di Mosca costretto alla fuga sembra confermare l’analisi di Filippo Andreatta, professore di Relazioni internazionali all’Università di Bologna, formulata prima in un seminario ristretto del think tank Arel con Enrico Letta e poi in un saggio, uscito anche su Scenari. Ne abbiamo discusso in una puntata di Appunti, un podcast di Domani (su Spotify e altre piattaforme).
Professor Filippo Andreatta, la guerra sta tornando nella campagna elettorale, anche se finora era scomparsa, se non per i suoi impatti sulle bollette. Perché?
Nelle campagne elettorali la politica estera ha di solito un peso secondario, è vero in tutte le democrazia occidentali: sono le politiche con diretto effetto sulla vita privata dei cittadini a essere al centro del dibattito.
Ci sono delle eccezioni, come in Italia nel 1948, quando la scelta netta era tra Nato e patto di Varsavia. Anche ora, però, siamo di fronte a cambiamenti non soltanto “nel” sistema internazionale ma “del” sistema internazionale, destinati a durare a lungo, e che influenzeranno la vita di tutti per decenni. E dovremmo parlarne.
Qualche mese fa molti commentatori prevedevano che il sistema dei partiti si sarebbe ricomposto sulla base degli schieramenti in politica estera, perché che sta con la Nato non può governare con chi sta con Putin e viceversa. In realtà sia centrodestra che centrosinistra tengono insieme partiti con idee opposte sulla guerra e sulla Russia.
L’attuale legge elettorale costringe a formare alleanze anche eterogenee, ma non è escluso che questa ricomposizione basata sull’omogeneità in politica estera possa avvenire in un secondo momento, dopo il voto.
Le coalizioni che vediamo oggi avranno molte difficoltà a restare compatte di fronte ai dilemmi che ci attendono in politica estera.
Finora i partiti in campagna elettorale hanno deciso di ignorare le due grandi questioni di quest’anno, cioè la guerra in Ucraina e la caduta del governo Draghi, con alleanze su basi non omogenee con le posizioni su queste due vicende.
Siamo entrati in questa crisi, tutti, inclusi Putin e i russi, convinti che fosse breve. Poi c’è stata la fase “Putin ha già perso”. Adesso ci si chiede come gestire una guerra che durerà decenni. Facciamo sempre previsioni sbagliate o il conflitto si evolve?
C’è stata una sorpresa, sicuramente: la sproporzione di mezzi e uomini iniziale faceva pensare a un rapido successo della Russia.
Nel saggio pubblicato anche su Scenari, ipotizzavo che fosse proprio una sottovalutazione delle caratteristiche del regime politico ucraino ad aver spinto a prevedere un rapido successo russo. L’Ucraina si è dimostrata molto dinamica, molto democratica, con anche le minoranze russofone che difendono l’indipendenza del paese, e questo ha portato a un equilibrio che ora sembra favorire gli ucraini. Ma la guerra durerà: Putin non può permettersi una sconfitta.
Anche quando il conflitto finirà, però, il sistema internazionale non tornerà quello precedente all’invasione del 24 febbraio 2022.
Perché le sanzioni e le loro conseguenze hanno riconfigurato il ruolo della Russia nella globalizzazione e, di conseguenza, anche quello della Cina e dell’Occidente?
L’invasione stessa ha indicato che il sistema internazionale era cambiato rispetto a quello della fase post-Guerra fredda, dominato dall’unipolarismo americano che difendeva l’ordine internazionale.
Questo periodo transitorio è finito dopo la Grande recessione nel 2008, quando gli Stati Uniti hanno scoperto il costo del ruolo di poliziotto nel mondo, combinato con la difficoltà nei vari interventi all’estero, tipo Afghanistan, e con le tensioni interne culminate nell’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.
Gli Stati Uniti non hanno più la forza e neppure la volontà di imporre un ordine unipolare: la brutalità dell’invasione della Russia dimostra che il modello unipolare è svanito, non c’è più un soggetto capace di imporre un limite all’azione degli altri.
Inoltre, l’invasione ha trasformato anche il sistema politico russo rendendolo incompatibile con quello occidentale: non tutte le autocrazie sono aggressive, ma quella che Putin sta costruendo lo è, con espansionismo e autocrazie legate tra loro.
La guerra in Ucraina sta diventando un elemento fondativo del potere di Vladimir Putin, come era stata quella in Cecenia per la conquista del Cremlino all’inizio della sua ascesa?
Un po’ come è stata la Bosnia per Slobodan Milosevic in Serbia: in Scienza politica si parla di regimi pretoriani quando uno stato autoritario declina le tensioni interne in imperialismo. Finché non c’è un cambio di regime penso che rimarrà una tensione tra tra Russia e Occidente.
La pronta e drastica reazione in termini di sanzioni e isolamento internazionale non ha rafforzato quel che restava dell’ordine mondiale a guida occidentale?
Si sono rafforzate le relazioni all’interno del mondo occidentale, Anche a livello economico le imprese come nella guerra fredda cercano partner alleati senza rischi geopolitici.
L’assenza di un ordine globale non esclude che si cerchi di rafforzare i legami con chi è più affine.
I nostri interessi come europei sono stati sfidati, per il momento gli Stati Uniti ci sostengono, ma non possiamo più darli per scontati come facevamo durante la Guerra fredda. E’ per quello che in questa campagna elettorale bisogna parlare di atlantismo ma anche di europeismo, perché non sono due prospettive alternative ma che si rafforzano a vicenda.
Nella Guerra fredda davamo per scontato che stare nel blocco occidentale, fosse non solo giusto ma anche vantaggioso in termini di stile di vita e benessere. Oggi, con i prezzi del gas che spingono bollette e inflazione, vediamo che l’appartenenza al blocco occidentale ha dei costi. Ci troveremo a dover scegliere, come ha sintetizzato il politologo Ivan Krastev, tra “pace” e “giustizia”? Tra i termosifoni accesi e le vite degli ucraini?
Il tempo gioca contro Putin, più passa il tempo più l’Ucraina accumula aiuti e più l’economia russa si logora, anche grazie alle sanzioni. E poi chi si lamenta dei costi del sostegno a Kiev dovrebbe preoccuparsi dei costi conseguenti ad una vittoria di Putin che sarebbero molto maggiori.
In Italia usciremo da una fase di unità nazionale e ci avviamo verso un governo di centrodestra. La politica estera diventerà un terreno di scontro?
Non è scontato quale linea prenderà la destra di governo, dipende molto anche dai rapporti di forza tra i vari partiti. Abbiamo due punti interrogativi: il fatto che, a livello di coalizione, il centrodestra include due partiti non solidamente filo-occidentali e filo-ucraini.
Bisogna vedere se e quanto Giorgia Meloni saprà dettare la linea. Anche perché, e questo è il secondo punto interrogativo, la base di Fratelli d’Italia su Russia e Ucraina sembra essere molto più in sintonia con Lega e Forza Italia che con Meloni.
Non basta l’atlantismo: se ci aspettano anni di tensioni con la Russia, ci sarà bisogno anche di più Europa. E bisogna vedere che posizioni prenderà Meloni, una svolta europeista sarebbe ancora più sorprendente e rilevante di quella atlantista.
Cosa dovrebbe are il nuovo presidente del Consiglio, appena insediato, per essere rilevante su questi dossier?
Ci vorrebbe una mossa netta e riconoscibile come il viaggio in treno di Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz in Ucraina.
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