Il leader più longevo di Israele, che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, ora deve condurre da comandante in capo, un conflitto che si annuncia lungo e difficile. Sapendo che questo sarà probabilmente il suo passo di addio
E così Benjamin Netanyahu, il combattente riluttante, il leader che si vantava di non aver mai cominciato una guerra, ora si trova costretto ad assumere i poteri di comando per un conflitto che annuncia “lungo e difficile”. Avverte i civile palestinesi, li esorta a lasciare Gaza perché “ridurremo i covi di Hamas a rovine”. Proclama l'intenzione di distruggere le strutture amministrative della Striscia e il ramo militare del gruppo terrorista. Sottile distinzione, non cita l'ala politica con cui presto o tardi dovrà comunque trattare, seppur per interposto Egitto, come vuole l'ipocrisia diplomatica per la quale non si parla con i terroristi.
Ammassa carri armati, missili e soldati a ridosso di Gaza per l'offensiva di terra largamente annunciata e vedremo come si svilupperà. Tsahal, l’esercito, nonostante la sua poderosa potenza ha almeno due incognite complicate da risolvere.
La prima: come salvaguardare la vita delle centinaia di ostaggi che saranno presumibilmente usati come scudi umani, nella storia di Israele pur di riavere anche un solo suo uomo catturato si sono spalancate le porte delle carceri a migliaia di detenuti palestinesi, addirittura si è analogamente preceduto per la restituzione del corpo di un soldato morto (e già adesso si vocifera di possibili scambi di prigionieri dopo l'arresto di centinaia di terroristi) . È il riflesso della memoria lunga della Shoah, la volontà di considerare sacra la vita di ciascun cittadino.
La seconda: come condurre la guerriglia nelle strette strade delle città della Striscia, dove sono penalizzati gli ingombranti carrarmati Merkava e favoriti gli agguati dei difensori che conoscono a menadito il terreno.
Ci sarebbe poi una terza difficoltà, dopo che avranno taciuto le armi. Se Israele occuperà Gaza la dovrà poi amministrarla, compito da far tremare i polsi a qualunque governo. Meglio allora un reazione sì molto determinata, dopo un massacro barbaro che agli israeliani ha evocato l'Olocausto, ma che lasci intatta un'autorità locale per il dopo.
Tutto questo Netanyahu lo sa, da politico navigato e spregiudicato. Fu (anche) lui quando Hamas, la formazione terrorista di ispirazione religiosa, era nata da pochi anni, a favorirne lo sviluppo per giocarla contro quello che allora, Anni Novanta, era considerato ancora il pericolo maggiore per Israele, il Fatah laico di Yasser Arafat che aveva concluso gli Accordi di Oslo, poi naufragati. Lui, il soldato valoroso di mille battaglie ma arrivato al massimo al grado di capitano, lui che alla carriera militare aveva preferito quella del businessman, per diventare alfine il primo ministro più longevo dello Stato ebraico.
La consuetudine con il potere
La lunga consuetudine con il potere (è al vertice dal 2009 salvo la parentesi di un anno) ha finito per corromperlo, tanto da essere incriminato nel 2019 per corruzione, frode e abuso d'ufficio a causa delle modifiche legislative varate per favorire aziende di comunicazione e importanti uomini d'affari. Proprio per difendersi da queste accuse conservando una posizione di forza ha cercato di mantenere la carica di premier imbarcando nella sua precaria maggioranza personaggi di partiti apertamente razzisti e di estrema destra.
Così da poter approvare una riforma giudiziaria che include una “clausola di annullamento” che permetterebbe alla maggioranza semplice del Parlamento di rigettare le decisioni della Corte Suprema. Insomma, il potere giudiziario sottomesso al potere dell'esecutivo. Un grave vulnus alla democrazia israeliana contro il quale da mesi scendono in piazza decine di migliaia di cittadini, compresi molti alti gradi dell'apparato militare e, soprattutto, i piloti dell'aviazione della riserva.
Le elezioni che si sono succedute a distanza di pochi mesi a causa della mancanza di un netto vincitore, lo scontro in atto tra gli apparati dello Stato, di fatto il perenne referendum Netanyahu sì-Netanyahu no, hanno finito per fiaccare le istituzioni dando ai nemici, vedi Hamas, la sensazione di debolezza di un'Israele divisa come mai era successo dai tempi della sua fondazione. Tutto questo viene ora imputato al primo ministro dopo lo choc dell'attacco terroristico di inaudita ferocia nel giorno di Shabbat e in coincidenza con l'anniversario della guerra dello Yom Kippur.
L'esercito ha dimostrato un'inedita incapacità di reagire, così come le sempre osannate agenzie di intelligence non sono state in grado di prevenire l'assalto nonostante le migliaia di informatori nella Striscia di Gaza e gli enormi mezzi tecnologici a disposizione.
Non si cambia il comandante in capo durante una guerra in corso. Vale ora anche per Netanyahu. Il quale, oltre a predisporre i piani dell'offensiva con i generali, è tentato dalla formazione di un governo di unità nazionale con l'esclusione dell'estrema destra diventata di colpo tanto ingombrante. Eppure nonostante i suoi tentativi di riconciliarsi con l'esercito e di imbarcare al governo la parte più ostile dei suoi oppositori, completato il mandato di vincere la guerra di Gaza il suo destino pare segnato. Successe anche per Golda Meir nel 1973 dopo lo Yom Kippur. E la “nonna del popolo israeliano”, come veniva definita, aveva indubbiamente assai meno colpe di quelle commesse da Benjamin Netanyahu sul suo viale del tramonto.
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