Il gruppo terrorista ha minato la convinzione di Israele di poter godere di un periodo di relativa sicurezza, il bene più prezioso per un Paese sempre minacciato. Ora l’unità nazionale prevale, ma è prevedibile che, risolta la crisi, ci sarà una resa dei conti a causa dei molti errori commessi nella tutela dei confini dello Stato
Ma dove erano?, si chiedono sgomenti gli abitanti di Israele dopo l'attacco su vasta scala dei terroristi di Hamas.
Dove erano i soldati che di solito monitorano, metro per metro, ventiquattro ore su ventiquattro, dotati di apparecchiature sofisticate, il confine più delicato dello Stato? Dove erano le pattuglie che controllano la barriera di protezione, contornata da una vasta fascia di terra battuta sulla quale si può scorgere anche l'orma di un piede nemico? Dove erano coloro che ricevono le immagini del pallone aerostatico posizionato sopra la Striscia capace di individuare, controllare e segnalare qualunque persona sospetta?
E dove era l'esercito se alcune ore dopo l'assalto la gente disperata e rinchiusa nelle stanze “sicure” di cui ogni casa è dotata, chiamavano le televisioni e le radio per invocare un soccorso che non era ancora arrivato mentre i miliziani armati scorrazzavano appena fuori dall'uscio?
E dove era lo Shin Bet, l'agenzia di intelligence per gli affari interni, se non si è accorta di un'operazione così vasta e coordinata da richiedere mesi se non anni di preparazione?
Israele vincerà
Non c'è dubbio sul fatto che Israele vincerà questa guerra, tanto è grande la sua supremazia militare. E pure non c'è dubbio che Hamas e la Jihad islamica, le due formazioni spesso in conflitto e stavolta unite, hanno già vinto perché hanno raggiunto il loro scopo.
Hanno aperto una ferita nell'immaginario di ogni israeliano che difficilmente si rimarginerà in tempi brevi: hanno minato la sicurezza di ogni cittadino, il bene più prezioso per una nazione perennemente in conflitto e che negli ultimi anni aveva sperato, grazie anche a una congiuntura internazionale favorevole, di poter diventare finalmente un Paese normale. Speranza spazzata via in un giorno d'anniversario quasi tondo (un giorno di differenza), cinquant'anni dopo la guerra dello Yom Kippur.
Come è logico, nella situazione emergenziale Israele tutto si è stretto attorno alla sua leadership. Non è affatto detto però che l'esecutivo uscirà rafforzato da questa terribile prova. E' anzi pronosticabile che, a crisi sedata, gli errori clamorosi faranno saltare molte poltrone sia ai vertici politici sia a quelli militari. E primo imputato non può che essere il premier, Benjamin Netanyahu, così avvinghiato all'idea della conversazione del suo potere fa sottovalutare i pericoli sempre annidati a ridosso del confine.
E' dalla guerra con il Libano del 2006, le migliaia di razzi katiuscia sparati da Hezbollah soprattutto nel Nord, che lo Stato ebraico non vive momenti così difficili. Le primavere arabe, il conflitto interno al mondo musulmano tra sunniti e sciiti, la stessa invasione dell'Ucraina da parte della Russia, avevano permesso a Israele una fase di relativa normalità. Relativa perché ci sono stati, certo, gli attriti con Gaza (2008, 2009, 2012, 2014, 2021) ma sono sempre stati così endemici e circoscritti da essere considerati alfine routinari. Soprattutto, salvo sporadiche incursioni di piccoli commando attraverso i tunnel scavati nel sottosuolo, non era mai stato violato il territorio dello Stato.
Gli accordi di Abramo
Gli Accordi di Abramo, il successivo avvio di una normalizzazione delle relazioni con gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita, avevano illuso che il peggio fosse alle spalle, che finalmente fosse giunto il momento in cui sentirsi almeno tollerati dai nemici di un tempo, che si andasse verso l'accettazione della presenza ebraica all'interno della galassia musulmana. Con la mediazione dell'Egitto era stato persino possibile, negli ultimi mesi, negoziare con Hamas. Ad esempio sulla possibilità di aprire i varchi di confine (seppure saltuariamente) per permettere il passaggio di decine di migliaia di lavoratori dalla Striscia verso Israele. Un errore? Niente affatto. Semmai l'errore è stato fidarsi di Hamas, ridimensionando, di tutta evidenza, quella vigilanza, quelle cautele che sempre avevano ispirato le azioni di difesa dello Stato.
Di tutto questo, e della litigiosità interna tra partiti che ha caratterizzato l'ultima fase dei governi di Israele al punto da far scendere in strada persino i soldati contro la volontà di Netnyahu di mettere un bavaglio all'ordine giudiziario, ha approfittato Mohammed Deif, l'inafferrabile capo dell'ala militare di Hamas e delle brigate Ezzedin al-Qassam, che ha potuto pazientemente costruire la sua rivincita. Con un'azione tanto spettacolare quanto efficace. I suoi uomini hanno sfondato la recinzione di confine, sono volati oltre con i deltaplani a motore per sfuggire al radar mentre in cielo era una sarabanda di razzi. A Sderot i terroristi hanno parcheggiato davanti alla sede della polizia e cominciato a sparare, sono entrati in una ventina di insediamenti e Kibbutz, uccidendo, prendendo ostaggi, e occupandoli per diverse ore. Un piano studiato sulle mappe nei minimi dettagli.
E' evidente, anche dai toni trionfalistici nei commenti di Teheran, che dietro ci sia la mano iraniana, una sorta di monito a Israele per segnalare che potranno fare pure accordi con il loro nemico saudita, ma che hanno comunque una spina nel fianco difficile da estirpare e che, attraverso Hamas, possono colpire. Come pure, se lo volessero, agire dal Libano tramite i loro alleati Hezbollah, da un territorio da tempo in sonno ma non certamente pacificato.
Tutto ritorna, nella sempiterna crisi mediorientale. Israele è il più forte ma per non riprendere a sentirsi sotto assedio deve rifare i conti su come riacquistare il bene prezioso della sicurezza. Dirsi ad alta voce: dove abbiamo sbagliato?
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