- La storia del contingente italiano della missione Miasit con base a Misurata è diventato un caso diplomatico tenuto sotto traccia per non alimentare polemiche su un’operazione in un territorio strategico ma conteso dalle potenze mondiali.
- Qui fino a marzo scorso duecentocinquanta militari italiani erano bloccati in Libia, oltre il tempo massimo della missione (180 giorni), in attesa dell’arrivo del nuovo contingente, che però ha ritardato la partenza a causa dei ritardi dell’ambasciata libica a Roma nel rilascio dei visti per i loro passaporti. Non è la prima volta, avviene di continuo.
- Il caso che crea più tensioni interne, può raccontare Domani grazie a fonti interne alla missione, riguarda i container con i viveri per il contingente trasportati dall’Italia fino al porto di Misurata. Per sbloccarli, rivelano, si tratta e si paga. La Difesa, però, a Domani riduce il tutto a generici «problemi doganali».
Soldati esasperati, visti ritardati, viveri bloccati nel porto dai libici e presunte trattative per farli passare. La storia del contingente italiano della missione Miasit con base a Misurata è diventato un caso diplomatico tenuto sotto traccia per non alimentare polemiche su un’operazione in un territorio strategico ma conteso dalle potenze mondiali. Ci sono i turchi in espansione che stanno realizzando una base navale; mentre, certamente fino a un paio di anni fa, nel raggio di un chilometro dal campo italiano si trovavano i centri della Sas (le forze speciali inglesi) e del dipartimento di stato americano.
Qui c’è, appunto, anche la struttura militare italiana. Fino al 5 marzo duecentocinquanta soldati italiani sono rimasti bloccati in Libia oltre il tempo massimo della missione (180 giorni), in attesa dell’arrivo del nuovo contingente, che però ha posticipato la partenza a causa dei ritardi dell’ambasciata libica a Roma nel rilascio dei visti per i loro passaporti.
Non è la prima volta, avviene di continuo, e il ritardo ha un costo. L’ambasciata libica fa sapere che per ogni giorno di permanenza in più sul territorio con il visto scaduto sicuramente ci sono delle penali da pagare.
Si è ripetuto un canovaccio già sentito la scorsa estate, quando Domani aveva rivelato che la nuova squadra di soldati che avrebbe dovuto dare il cambio ai colleghi era arrivata con circa tre mesi di ritardo sempre per lo stesso motivo: l’ambasciata libica ritardava il rilascio dei documenti per il contingente in partenza.
«Sono stati sette mesi da incubo», dice a Domani uno dei militari rientrati dalla missione. «È la prima volta che sono stato in Libia e sono rimasto veramente scioccato. Abbiamo avuto un trattamento da parte dei libici che non mi sarei mai aspettato».
La storia di Miasit
La missione bilaterale di supporto e assistenza (Miasit) nasce nel 2018, tuttavia negli anni il suo scopo è diventato marginale. È stata istituita in risposta alle sollecitazioni di Fayez al Sarraj, allora presidente del governo di accordo nazionale libico, che aveva inviato due lettere al nostro governo: la prima il 30 maggio del 2017, la seconda il 23 luglio, in cui chiedeva addestramento in Italia e in Libia per i suoi uomini con l’obiettivo di contrastare l’immigrazione illegale e ricevere supporto sanitario garantito dall’ospedale da campo italiano Role due di Misurata.
Oggi quell’esecutivo non c’è più, al suo posto ci sono due centri di potere diversi. Nel febbraio del 2021 a capo del governo di unità nazionale è stato eletto dai delegati del Forum di dialogo politico libico, sotto l’egida delle Nazioni unite, Abdel Hamid Dbeibah.
A un anno di distanza dall’elezione di Dbeibah, la Libia vive uno stato di profonda crisi politica dopo il rinvio del voto previsto per il 24 dicembre 2021. La nuova data non è ancora stata fissata, nel frattempo il parlamento di Tobruk ha scelto Fathi Bashagha come nuovo premier non riconoscendo più l’autorità di Dbeibah, il quale lo scorso 10 febbraio è scampato a un attentato mirato contro il convoglio sul quale viaggiava diretto alla sua residenza.
Il rischio è il ritorno a una situazione di profonda instabilità del paese, lacerato con due governi, uno a est e l’altro a ovest. Dbeibah, di certo, non ha intenzione di concludere il suo mandato prima di nuove elezioni.
In questo clima di incertezza gli obiettivi iniziali previsti dal decreto della missione italiana includevano una serie di attività, tra cui l’addestramento per lo sminamento dell’area, al momento rimaste solo su carta e mai eseguite dal contingente italiano a Misurata.
«Qui non siamo ben visti, “quando vieni te ne accorgerai”, mi disse il mio cambio», dice uno dei soldati in missione. «A livello logistico siamo stati soppiantati dai turchi, l’unico motivo per stare lì è l’ospedale, però quando entrano due-tre visite al giorno non ha neanche senso rimanere là in una situazione del genere», racconta un secondo militare.
Tra i membri del contingente la sfiducia è diffusa. Sorge il dubbio sulla necessità di questa missione, che tra l’altro ha dei costi non indifferenti. Nel 2020 la stima di spesa è stata di oltre 47 milioni di euro, soldi che vanno a coprire i costi del personale impiegato, circa 400 unità, e quello dei mezzi sia terrestri che aerei utilizzati.
Il ricatto sui container bloccati al porto
«Dalla base militare non uscivamo mai, quando non lavoravamo passavamo la giornata in palestra, a mensa e stesi sui lettini. Era diventata pura routine, quella cosa che ti ammazza durante la missione», dice un altro soldato.
La struttura, che si trova a pochi metri dall’aeroporto, in un’area semi desertica come si vede dalle immagini satellitari, lavora a regimi ridotti con pochi medici e infermieri che si prendono cura di una decina di pazienti ogni mese. A confermarlo sono i militari: «C’erano giorni in cui non entrava nessuno e altri in cui magari c’erano solo due o tre visite da fare».
Numeri esigui rispetto agli anni più cruenti della guerra civile libica, in cui serviva effettivamente un aiuto umanitario e militare per il governo riconosciuto dalle Nazioni unite. Alla situazione di stallo di oggi si sommano anche l’ostruzionismo e i dispetti della controparte libica, che non nasconde il disprezzo per la presenza italiana.
Il caso che crea più tensioni interne, spiegano fonti interne alla missione, riguarda i container con i viveri per il contingente trasportati dall’Italia fino al porto di Misurata. Giunti nello scalo portuale libico vengono spesso bloccati. Così il cibo nella base inizia a scarseggiare, resta il riso, ma le riserve d’acqua potabile si riducono drasticamente. «C’erano settimane in cui non arrivava nulla, gli addetti alla dogana locale sono quelli che bloccavano i container, ma sicuramente l’ordine veniva dall’alto», dice uno dei militari.
Dopo diverse trattative il personale riusciva a ottenere i viveri, ma a quale prezzo? «Ufficiali, addetti alla logistica, uscivano con i soldi, ma non ho mai visto scambi di denaro», dice una delle fonti in missione a Misurata. Le tre fonti riferiscono delle trattative sui container ma precisano di non aver mai visto direttamente consegne di denaro alla controparte libica.
Tuttavia riferiscono di negoziati per liberare i container in ostaggio, «era l’unico modo per sbloccare i container che rimanevano al porto a marcire, del resto la Libia non è il primo posto al mondo dove succedono cose del genere: è una regola non scritta», dice uno di loro.
La Difesa precisa: «Siamo a conoscenza che il rilascio dei visti e le pratiche di sdoganamento delle merci possono subire ritardi a causa delle procedure burocratiche, ma in merito a quanto segnalato, le uniche incombenze di cui si ha conoscenza riguardo l’arrivo delle merci giunte via mare sono di carattere doganale».
I vertici militari, dunque, escludono trattative e imputano i ritardi dello sdoganamento solo a lentezze burocratiche. Di certo, però, il porto di Misurata è al centro di recenti scandali di corruzione. Il giornale online Lybia Herald, il 10 gennaio 2022 (nei giorni in cui abbiamo raccolto le testimonianze delle nostre fonti interne) riportava la notizia dell’arresto di nove agenti doganali per un’appropriazione indebita da 25 milioni di euro in combutta con società con affari nello scalo portuale libico.
Arrivano i turchi
Uno studio del 2022 del Bti trasformation index, un gruppo di lavoro composto da 300 esperti di geopolitica, rivela l’esistenza solo a Misurata di oltre 200 milizie diverse, tra le più spietate, accusate di crimini gravissimi, molte delle quali collegate al governo del generale Haftar.
Alcuni di questi gruppi gravitano proprio attorno agli interessi del porto, il più importante in Libia e sempre più sotto il controllo turco: alla fine del 2021 Berat Albayrak, ex ministro dell’Economia nonché genero di Recep Tayyp Erdogan, il presidente della Turchia, aveva presentato un’offerta per avere in concessione per 25 anni l’area più contesa del porto di Misurata.
Secondo fonti dei servizi segreti citate dalla testata specializzata Africa intelligence, «l’offerta prevede lo sviluppo delle infrastrutture della regione, con il dieci per cento dei ricavi da destinare all’assistenza finanziaria alle imprese che intendono stabilire la propria presenza nella zona franca, condizione che potrebbe essere utilizzata per assistere le imprese industriali turche».
La crescente influenza di Erdogan nell’area è confermata anche dai soldati tornati dalla missione di Misurata: «A settembre alcuni funzionari libici sono entrati con uomini dell’intelligence turca dentro la base. Sono stati lasciati entrare bypassando tutti i controlli possibili e immaginabili. Hanno fatto foto ovunque: nel deposito munizioni, nell’armeria, ai mezzi, alle targhe, ai lince con la torretta motorizzata. La fortuna ha voluto che non sono entrati nell’area riservata, dove hanno accesso pochissime persone dato che ci sono materiali riservati e mi hanno detto anche segreti», racconta uno dei soldati del contingente.
I libici, insieme a presunti membri dei servizi segreti turchi, si muovevano come se fossero a casa loro. «Potevamo fare ben poco, non gli puoi dire niente. Chiunque poteva entrare nella base, bastava superare i controlli dei check point libici».
L’ostilità libica ha ripercussioni anche sull’incolumità dei soldati. Tanto che quando i membri del contingente escono dalla base devono farlo in abiti civili e disarmati, così vogliono i libici. «Noi non eravamo autorizzati a portare le armi in giro. Addirittura nascondevamo le armi nella nostra base», dice uno dei soldati.
La stessa situazione è stata evidenziata da un’interrogazione parlamentare di Fratelli d’Italia a cui né il ministero della Difesa né il governo ha risposto.
Anche le autorità italiane sono consapevoli dei rischi della missione, nessun funzionario militare di alto rango ha fatto visita alla missione negli ultimi mesi, neanche durante le festività natalizie per i consueti auguri.
Verso gennaio, invece, c’è stato un incontro online tra i vertici del Miasit e il generale Francesco Paolo Figliuolo, già commissario straordinario all’emergenza Covid, che da inizio 2022 ha assunto anche la direzione del Covi (Comando operativo vertice interforze).
Ufficialmente è stato un incontro di presentazione e di inaugurazione delle nuove funzioni di Figliuolo, tuttavia durante il collegamento si è fatto cenno alla possibilità di trasferire la missione da Misurata a Tripoli. Per ora sono ancora ipotesi.
«A volte ci sono delle difficoltà di comprensione dovute sia alla lingua che ad atteggiamenti differenti che sono complessi. Ci vuole tanta pazienza per lavorare sia da una parte che dall’altra in questo tipo di contesti ed è proprio quella la chiave del successo: la pazienza nel portare avanti il discorso con calma e tranquillità», è la replica del Covi diretto da Figliuolo.
Dal comando escludono attriti con la Libia. La causa dei problemi? «Loro hanno la loro burocrazia, ne siamo al corrente e se ne occupa lo stato maggiore della Difesa», dice il Covi, che precisa: «Il vertice interforze si occupa dell’avvicendamento e del controllo del personale anche del Miasit, in questo caso il Covi si avvale dei colleghi dell’ambasciata libica a Roma dove hanno un ufficio militare e dove hanno loro procedure che sono probabilmente un po’ lunghe».
Lo scenario di guerra
Il teatro di guerra in cui si muove il contingente non è rassicurante, nel 2019 un attacco aereo attribuito all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar ha colpito alcuni bunker nei pressi dell’aeroporto di Misurata usati dai turchi arrivati in supporto del governo di Tripoli. Obiettivi vicini all’area dell’ospedale e della base del contingente italiano, che non hanno subito danni, come confermato dall’ambasciata.
Sempre nella stessa area, a luglio 2020, un incidente ha causato una forte esplosione ha distrutto due bunker che custodivano munizioni.
Inoltre a meno di due anni di distanza il paese sta affrontando una crisi politica ed economica che potrebbe avere ripercussioni sul processo di transizione democratica avviato dalle Nazioni unite. Il paese è ancora insicuro e in alcune aree continuano gli scontri tra le milizie e i gruppi armati che si stanno riorganizzando in questo nuovo assetto del potere che vede protagoniste in prima linea anche forti potenze come la Russia e la Turchia.
Nell’estate del 2020 un incontro tra il governo di accordo nazionale e membri della difesa turca e del Qatar hanno raggiunto un accordo per creare una base militare a Misurata. In questo scenario la presenza italiana è vista come un’intrusione, fastidiosa, nel controllo completo nell’area.
Qualche anno prima, nel giugno del 2018, erano state le tribù del Fezzan (regione che copre il centro sud della Libia) a esprimere, attraverso un comunicato, la loro contrarietà alla presenza italiana, considerata come straniera e occupante del territorio libico. Nel comunicato si chiede anche alle tribù locali di combattere contro l’esercito italiano.
«Tecnicamente a Misurata ci saremmo noi, ma in realtà ci sono i turchi che hanno un ruolo privilegiato. Però è anche vero che in quell’area comandano i misuratini, sono loro che decidono cosa fare e con chi interagire, hanno l’ultima parola su tutto», dice Giuseppe Dentice, responsabile desk medio oriente per il Centro studi internazionali, che spiega: «I nostri soldati ma anche altri hanno problemi simili. Questa situazione è figlia della spartizione della nuova Libia».
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