L’uragano Sandy a ottobre 2012 ha dimostrato quanto può essere violenta la natura e quanto è fragile New York. Per proteggere la città dall’innalzamento dei mari è stato progettato un sistema di barriera, ma è oggetto di scontro. Gli ingegneri che lo stanno progettando guardano al Mose di Venezia, ma non è chiaro cosa succederà con Biden
- New York è in pericolo per l’innalzamento dei mari generato dallo scioglimento dei ghiacci, e l’aggravarsi di eventi atmosferici potenziati dal riscaldamento globale.
- Il governo Usa ha avviato uno studio per la costruzione di un muro di otto chilometri che proteggerebbe la città. L’opera ha bisogno di 25 anni per essere costruita e costerebbe 62 miliardi di dollari: è al centro di forti dibattiti.
- I gruppi ambientalisti sono preoccupati per la catastrofe ecologica innescata dalla costruzione dell’infrastruttura, mentre i cittadini di New York chiedono che qualcosa sia fatto al più presto.
Nel primo pomeriggio del 29 ottobre 2012, Jimmy Kokotas, proprietario del ristorante Tom’s, ha chiuso in fretta il suo locale sul litorale di Coney Island, una delle spiagge della città di New York affacciate sulla baia. Michael Bloomberg, allora sindaco della città, aveva chiesto a 375mila newyorkesi di evacuare le proprie case e negozi, perché Sandy, un uragano di categoria tre, stava per colpire New York. I cacciatori di tempeste (gli appassionati che seguono fenomeni atmosferici estremi) erano già arrivati sulla east coast, mentre i meteorologi ormai si preparavano al peggio.
Kokotas aveva preso sul serio l’avvertimento ed era tornato a casa nel quartiere di Bergen beach, ma alle sette di sera, ansioso per la sorte del ristorante che aveva aperto appena cinque settimane prima, ha deciso di tornare a Coney Island per controllare cosa stesse succedendo. Sua moglie, preoccupata che il marito si mettesse in pericolo, ha insistito per accompagnarlo.
«Hai presente quando la vasca da bagno si riempie e tutto si allaga? Sulla strada verso Coney Island l’acqua saliva dalle grate di scolo. Ma la situazione non era ancora orribile», dice Kokotas.
Eventi estremi
Nei giorni a venire, Sandy avrebbe ucciso 147 persone negli Stati Uniti, causato danni per 70 miliardi di dollari e distrutto più di 200mila case. New York si è rivelata suscettibile alle inondazioni che non saranno più un’eccezione nei decenni a venire. L’effetto serra darà sempre più forza a eventi estremi come Sandy, lo scioglimento dei ghiacci polari farà salire il livello dei mari, e anche tempeste meno violente metteranno in pericolo non solo New York, ma le città costiere di tutto il mondo.
Subito dopo Sandy, il governo americano ha dato il via allo studio di una barriera marina. Un’opera contestata per il costo previsto di 62 miliardi di dollari, tempo di costruzione e impatto ambientale, ma che dovrebbe proteggere New York da uragani futuri.
Nel 2012, tutto ciò era ancora a venire e Kokotas guidava verso uno dei luoghi più colpiti dall’uragano. Alcune centrali elettriche erano sott’acqua, e parte della città si trovava completamente al buio. Se ci fosse stata una barriera come la si immagina oggi, Kokotas non avrebbe visto il proprio locale inondato.
Secondo i meteorologi americani, Sandy è stato un evento eccezionale perché oltre a esser avanzato lentamente verso nord risucchiando energia dalle acque calde della corrente del golfo, l’uragano ha colpito la costa nei giorni di luna piena: la marea era eccezionalmente alta. Una combinazione fatale, ma non imprevedibile.
Malcolm Bowman, oceanografo a capo del Stony Brook Storm Surge Research Group, ha scritto nel 2005 un articolo d’opinione per il New York Times, subito dopo la distruzione causata dall’uragano Katrina a New Orleans, ammonendo che la città di New York sarebbe stata la prossima.
«Nessuno avrebbe potuto sapere quando sarebbe accaduto. Ma ne ero certo, come Noè nella Bibbia che prevede l’inondazione. “‘Hey, dobbiamo costruire un’arca” disse Noè, ma tutti gli risero in faccia», dice Bowman.
Uno studio di Nature sostiene che l’America del nord, compressa fino a 11.700 anni fa da tre chilometri di ghiaccio, stia riguadagnando pian piano lo spazio perso lievitando al centro e inclinando l’east coast verso il mare a una velocità di tre millimetri all’anno. Allo stesso tempo, Vivien Gornitz, ricercatrice del Center for climate systems research Columbia university, insieme a scienziati di tutto il mondo, prevede che nei prossimi cento anni a causa dello scioglimento dei ghiacci polari i mari cresceranno di uno, forse due metri. Una prospettiva terrificante se si aggiungono i tre metri d’acqua arrivati con Sandy.
Nel 2009, Bowman, che per decenni aveva studiato l’innalzamento dei mari e l’impatto che questo avrebbe avuto su New York, ha messo insieme un gruppo di ricercatori e ingegneri per capire come proteggere la città. L’oceanografo aveva in mente un’infrastruttura mastodontica: come aveva fatto Londra sul Tamigi; come San Pietroburgo nel golfo di Finlandia; come i Paesi Bassi affacciata sul mare del nord; e come Venezia nel mare Adriatico.
La protezione
«La domanda è: cosa possiamo fare?», dice Bowman. «Non possiamo fermare l’innalzamento dei mari, ma c’è qualcosa che possiamo fare per cercare di proteggere la città per i prossimi cento anni».
Aveva in mente una barriera marina di otto chilometri fatta di acciaio e cemento che avrebbe diviso l’estuario del fiume Hudson e l’oceano Atlantico da Sandy Hook, in Connecticut, alla penisola di Rockaway. Il muro, costruito come una staccionata, avrebbe avuto segmenti aperti forniti di muri sollevabili dal fondale marino, lasciando spazio al centro della barriera per un canale di passaggio per le navi, anch’esso chiudibile da due barriere curve. Il tutto con un’autostrada in cima. Un’altra barriera simile a Long Island Sound avrebbe chiuso l’altro affaccio di New York sull’oceano.
Jimmy Kokotas fa parte della terza generazione di una famiglia di immigrati greci arrivati a New York all’inizio del secolo scorso. Nel 1936, il nonno di Kokotas,Tom, ha comprato un ristorante nel cuore di Prospect Heights, passato poi a suo figlio Gus Vlahavas. Questo succedeva quando Brooklyn aveva la fama di essere un quartiere pericoloso, prima della costruzione di edifici lussuosi e dell’invasione di bar hipster. Gus Vlahavas è ricordato come una figura storica del quartiere, gentile e cordiale con tutti i suoi clienti. Nel 1968, subito dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr., furono proprio i suoi clienti a formare una catena umana per proteggere il ristorante dalla distruzione della protesta scoppiata nel quartiere.
Kokotas è cresciuto lavorando con suo zio nel ristorante, e nel 2009 ha ricevuto la gestione del locale. Dopo quasi un secolo di lavoro, i risultati dei sacrifici della sua famiglia erano nelle sue mani. Pochi anni dopo, trovata un’occasione immobiliare, Kokotas ha aperto un locale gemello sulla litoranea di Coney Island. Ma non poteva sapere che il mare che i suoi antenati avevano attraversato in cerca di fortuna avrebbe messo in pericolo quello che avevano costruito.
Alle otto di sera del 29 ottobre 2012, Kokotas era davanti al suo nuovo ristorante, che in quel momento non aveva ancora subito danni. Il mare bianco come una parete orizzontale entrava nello spicchio di terra di Brighton beach. Non c’era più nessuno in giro, e i curiosi, che nel pomeriggio immortalavano con i propri telefoni il mare avanzare, erano scomparsi.
Kokotas, resosi conto dell’avventatezza della sua azione, tornò in macchina con un unico pensiero in mente: uscire di lì al più presto.
«L’acqua per strada era già diventata troppo alta», racconta Kokotas.
Le strade si erano trasformate in fiumi lì dove poche ore prima c’era terra. L’acqua continuava a salire pericolosamente vicino al motore della macchina. In città, acqua ed elettricità causavano esplosioni. Torrenti entravano nelle case, riempiendo i primi piani, lambendo i secondi, intrappolando coloro che non avevano evacuato le zone in pericolo. Faceva già freddo a fine ottobre. Alcune delle 87 persone decedute per cause indirette dell’uragano sarebbero morte di ipotermia.
I danni economici e la tragedia umana causati da Sandy hanno spinto il Congresso americano a richiedere agli Army Corps of Engineers, gli ingegneri civili militari, uno studio preliminare, il North Atlantic coast comprehensive study, per capire gli impatti degli uragani futuri e proteggere New York e i 19,7 milioni di persone che vivono nella regione a rischio. Secondo uno studio di Scott Stringer, direttore amministrativo della città, 101,5 miliardi di dollari di proprietà immobiliari pubbliche e private sono a rischio di allagamento nei prossimi cento anni.
Un’area di 260 chilometri quadrati, con all’interno infrastrutture critiche come ospedali, aeroporti, ferrovie, metropolitane e autostrade. Stephen Couch, deputy chief degli Army corps per l’area di New York, assieme a un team di cinquanta persone, ha avviato uno studio ufficiale, supportato da Malcolm Bowman e dal suo Stony Brook Storm surge research group, per varare una serie di proposte.
«L’idea di questo report era di accumulare informazioni, immaginare delle proposte, e capire la reazione del governo e dei cittadini», dice Couch. Una delle cinque possibili soluzioni era proprio la costruzione della barriera marina proposta dal gruppo di lavoro di Bowman: la più estrema, ma che dovrebbe proteggere con più efficacia la città. Ma il progetto, inizialmente previsto con un costo di 119 miliardi di dollari, poi ridotto a 62 miliardi, non teneva in considerazione l’innalzamento dei mari a causa del cambio climatico.
Tempi lunghi
Lo studio della barriera si trova in uno stato ancora embrionale. Le comunità della parte bassa di Manhattan, fortemente colpita durante l’uragano Sandy, sostengono la costruzione della muraglia, mentre i gruppi ambientalisti si oppongono. Il dibattito pubblico è acceso. I diversi gruppi d’interesse si scontrano, ognuno con le sue ragioni e ricerche da sbandierare.
«È assurdo», dice John Lipscomb, vicepresidente di Riverkeeper, una associazione che si occupa dello studio e della protezione del fiume Hudson e del suo estuario. Lipscomb, uno dei più accaniti oppositori al progetto, ha spiegato che quando il livello del mare sarà più alto, durante l’alta marea i cancelli della barriera rimarrebbero aperti, facendo passare l’acqua che inonderebbe comunque le parti più a rischio della città.
«Agli Army corps è stato richiesto di risolvere solo la metà del problema. Vedremo un progressivo innalzamento dei mari, e un giorno avremo allagamenti come quelli causati dall’uragano Sandy tutti i giorni, e nessuno sta studiando quello», dice Lipscomb.
Però a Riverkeeper interessa solo in parte l’effettiva efficacia della barriera marina. Ciò che maggiormente preoccupa gli attivisti è l’impatto che l’infrastruttura avrebbe sull’ecosistema del fiume Hudson.
«Sarebbe come mettersi una busta di plastica in testa, con un paio di buchi, e lasciarla lì per il resto della tua vita. Credi che avrà un impatto? Certo che sì», dice Lipscomb.
Le due maree giornaliere portano anche vita fuori e dentro al fiume. Lipscomb ha spiegato che decine di specie migratorie di pesci nuotano per deporre le uova, ma i 25 anni di costruzione bloccherebbero questo flusso. Inoltre, la barriera ridurrebbe l’effetto della marea dalla quale dipendono zone fluviali fino a 400 chilometri nell’entroterra. L’attivista ha comparato il disastro ambientale che ne deriverebbe a quello accaduto dopo la costruzione del Maeslantkering nei Paesi Bassi, dove gli ecosistemi costieri e fluviali sono stati sconvolti dall’opera ingegneristica messa in piedi per salvare il paese dalle inondazioni.
Al posto di una muraglia, Lipscomb crede che si dovranno spostare parti della città destinate a essere sommerse e proteggere il resto con soluzioni meno invasive. Navigando sullo Hudson, Lipscomb mi ha indicato moli galleggianti ancorati di fronte a Manhattan, e ha spiegato che proprio su piattaforme del genere bisognerebbe spostare centrali elettriche e altre strutture chiave per la città. Ha raccontato la storia di interi villaggi dell’Amazzonia che vivono su isole galleggianti e che quando il Rio delle Amazzoni sale, la popolazione e case sono al sicuro. Ma New York non è un villaggio nell’Amazzonia.
Un dibattito pubblico e politico che si trascina per anni è tipico prima della costruzione di grandi opere. Ed è proprio per questo che spesso i tempi di studio sono lunghi: il governo del caso dovrebbe prendere in considerazione tutte le parti coinvolte. L’ingegnere Alberto Scotti, presidente di Technital e “papà” del Mose di Venezia, ha iniziato gli studi di fattibilità per la barriera della laguna nel 1987, quando erano già dieci anni che si parlava di un progetto simile.
«Mi sono accorto che non si poteva, per un’opera così importante, pensare solo a realizzarla, bisognava capire gli impatti, le alternative, e fare ragionamenti tecnici, economici, sociali e ambientali. Opere di questo genere meritano un approccio a tutto campo», dice Scotti. «Abbiamo accumulato così tante competenze che mancava solo il prete».
L’ambiente lagunare veneziano era molto sensibile sotto il profilo ambientale, quindi Scotti ha cercato di progettare un’opera che avesse un impatto ambientale minimo. Grazie a paratoie che si sollevano dal fondale marino solamente durante le acque alte, il Mose consentirà il fluire di vita marina dentro e fuori dalla laguna.
«Sarà interessante capire se funzionerà», dice Bowman riferendosi al Mose. «Costruire sott’acqua è costoso e difficile».
Dopo decenni di studi, 6 miliardi di euro spesi, interruzioni e inchieste giornalistiche e giudiziarie sulle tangenti pagate intorno all’opera, il Mose è entrato in funzione per la prima volta il 3 ottobre scorso per proteggere Venezia dall’acqua alta, e dovrebbe essere consegnato nel 2021. Nonostante gli scandali, Stephen Couch e gli Army corps guardano al Mose come ad un precedente ingegneristico da tenere in considerazione nella costruzione della barriera marina a New York.
L’esempio
Jimmy Kokotas, dopo tanta paura su Surf Avenue, è riuscito a entrare su Ocean Parkaway, lasciandosi dietro il fronte della tempesta, e tornare pian piano a casa. Ma anche l’interno di Brooklyn era stato inondato, e la sua cantina era allagata da un metro e mezzo d’acqua.
Nei giorni successivi, consapevole della fortuna di essere sopravvissuto, Kokotas ha cercato di rendersi utile alla comunità di Coney Island disastrata dall’uragano. Il suo ristorante, leggermente sopraelevato rispetto alla spiaggia, non aveva subito danni strutturali ingenti. Era l’unica attività parzialmente risparmiata dal a poter riaprire. Dopo qualche giorno di lavoro per estrarre l’acqua, Kokotas ha offerto il suo ristorante come campo base per i 5mila volontari accorsi da tutta la città. «Il danno che ha fatto a Coney Island è stato orribile», dice Kokotas cercando le parole per descrivere ciò che avvenne dopo l’uragano. Mancava l’elettricità e non funzionavano i sistemi di riscaldamento. Ci sarebbero voluti mesi per riparare le case danneggiate, e anni per risollevare le sorti degli esercizi commerciali distrutti dal mare.
«Non sono un ingegnere, ma se una barriera marina è quello di cui c’è bisogno per proteggere la gente e lasciare aperti i negozi, io sono d’accordo», dice Kokotas.
Ma il 18 gennaio 2020, l’allora presidente, Donald Trump, ha twittato: «Un muro marino enorme con il costo di 200 miliardi, costruito attorno a New York per proteggerlo dalle rare tempeste, è una stupida idea e ambientalmente insostenibile, e che quando sarà necessario magari non funzionerà neanche. E poi avrà un aspetto orribile. Mi spiace, ma dovrete tener pronte le vostre scope e secchielli».
Poche settimane dopo il tweet del presidente, l’amministrazione Trump ha sospeso i fondi per lo studio che gli Army corps stavano portando avanti. Il costo del muro dovrebbe essere finanziato al 65 per cento dal governo americano, con l’approvazione del Congresso, mentre il rimanente 35 per cento andrebbe a carico degli stati di New York e New Jersey. Quindi il benestare del governo centrale è fondamentale per il finanziamento degli studi e della costruzione.
«Trump ha salvato la situazione, e questo mi fa ridere», dice divertito Lipscomb di Riverkeeper. Il presidente che si è così fortemente accanito nel negare gli effetti dei cambiamenti climatici e disfare le leggi che l’amministrazione precedente aveva messo in atto per la protezione dell’ambiente, è diventato un inconsapevole paladino ambientalista. Ma altre associazioni, che avevano lottato contro la costruzione del muro, chiedevano modifiche e non la sospensione dei lavori. Per questo anno solare gli Army corps of engineers hanno annunciato che il progetto è sospeso, ma è possibile che la situazione cambi nuovamente con la nuova amministrazione. «La grande differenza tra Europa e America è che in Europa i governi si preparano per tempo», dice l’oceanografo Malcolm Bowman. «Gli Stati Uniti sono un paese giovane, ricco e reattivo. Possiamo mandare un uomo sulla luna, ma quando Sandy o l’11 settembre succedono, aggiustiamo tutto dopo». Bowman, a disagio per questo atteggiamento americano basato sulla retroattività, crede che questa sia la differenza culturale principale con l’Europa.«Dopo aver visto quello che è successo con Sandy, per me la cosa più importante è salvare vite umane», dice Kokotas. «A un certo punto qualcuno dovrà prendere delle decisioni molto difficili».
Per far fronte agli effetti del cambiamento climatico i governi di tutto il mondo si stanno preparando a proteggere o a rivedere la geografia delle proprie città costiere.
Starà alla tempestività dei diversi governi salvare o meno queste città. Giacarta, la capitale dell’Indonesia, affonda, e verrà spostata sull’isola del Borneo.
È difficile a dirsi quando e Wall Street sarà di nuovo sott’acqua, ma le previsioni dicono che succederà presto. «Madre natura vince sempre. Non ha senso combatterla, ma bisogna fare del proprio meglio per andarci d’accordo, perché alla fine è lei che comanda», dice Kokotas.
«Alla fine, noi siamo qui solamente di passaggio».
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