Accanto alle grida di giubilo di milioni di siriani per la fine di un regime oppressivo, durato 54 anni, si staglia il silenzio di moltissimi altri cittadini che temono di finire in un incubo peggiore
Accanto alle più che legittime grida di giubilo di milioni di siriani per l’improvviso dissolvimento, dopo ben 54 anni, del potere incarnato dalla famiglia Assad, si staglia il silenzio, altrettanto comprensibile, di moltissimi altri siriani impauriti dall’idea che il periodo post-regime possa trasformarsi in un incubo ancora peggiore dei quasi 14 anni di guerra mondiale vissuti sul territorio siriano.
Perché, se del raìs e della sua cerchia di pretoriani e faccendieri non v’è per ora alcuna traccia, il paese rimane diviso da trincee politico-militari, occupato da forze straniere — Russia, Usa e Turchia — e dai loro ascari di varie nazionalità, e, soprattutto, lacerato da profonde ferite sociali e comunitarie.
Allargando la lente, la Siria rimane al centro del ciclone mediorientale. Gli stravolgimenti regionali innescati il 7 ottobre 2023 e ciò che ne è seguito a Gaza, in Israele e in Libano hanno consentito all’offensiva dei jihadisti filo-turchi di Idlib di avanzare quasi indisturbati fino a Homs, risvegliando in poche ore le altre mai sopite anime della rivolta armata del 2011-2012. Queste forze hanno preso Damasco provenendo dall’estremo sud, al confine con la Giordania e il Golan occupato da Israele.
Proprio Israele ha rapidamente occupato il versante siriano delle Alture, a poche decine di chilometri da Damasco. Mentre i russi sembrano in grande difficoltà, accerchiati persino nelle loro basi principali, e gli iraniani con i loro ausiliari iracheni, libanesi e afgani appaiono già dissolti, gli Stati Uniti hanno recentemente rafforzato la loro presenza a est dell’Eufrate. Intanto i turchi, nel nord-ovest e nel nord-est, sparano colpi di artiglieria per facilitare il collasso delle forze curde, espressione locale del Pkk.
I movimenti delle forze straniere e dei loro alleati locali vanno analizzati sullo sfondo della festa per la caduta del regime, per decifrare il silenzio loquace dei siriani timorosi del post-Assad. Mentre il leader dell’offensiva filo-turca, l’ex qaedista Abu Muhammad al-Jolani, bacia il prato di un’aiuola di Damasco, il cameraman indugia sulla pistola che fuoriesce dalla parte posteriore dei suoi pantaloni. Jolani — il cui nome significa “originario del Golan” — ha già abbandonato il suo nome di battaglia, firmandosi con il nome originario Ahmad Sharaa, tentando così di svestire i panni del fondamentalista islamico.
Questa improvvisa metamorfosi, evidentemente gattopardesca, mira ad accreditarsi presso le cancellerie arabe del Golfo — le uniche nella regione ancora capaci di offrire risorse finanziarie significative per la ricostruzione del paese — e presso quelle occidentali, in particolare la futura amministrazione americana di Donald Trump. Jolani-Sharaa ha infatti l’ambizione di diventare, con il placet del suo iniziale sostenitore, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il condottiero della Siria di domani. O almeno della Siria centro-occidentale, sempre più attratta, come il Libano post-Nasrallah, nell’orbita israelo-statunitense.
Il resto della Siria appare come un rebus quasi separato da tutto ciò: nelle regioni centrali della steppa desertica, gli insorti locali, che per anni hanno utilitaristicamente aderito all’Organizzazione dello Stato Islamico (Isis), si interrogano in questi giorni se convenga cambiare bandiera, magari associandosi alle fila vittoriose guidate da Jolani-Sharaa. Oppure, se sia meglio continuare la loro forma di jihad rimanendo nell’orbita dell’Isis. Di certo, questi giovani siriani della Badiya sono di nuovo “sul mercato” per essere arruolati dai vari attori contro le forze curde, dispiegate lungo l’Eufrate e ancora sostenute, almeno per ora, dagli Stati Uniti.
L’amministrazione autonoma curdo-siriana del nord-est è in una posizione difficile. Sa che gli Usa sono pronti a sacrificare alleati locali quando cambiano certi interessi. E Trump, che già durante il suo primo mandato aveva chiesto il ritiro delle truppe dalla Siria, ha dichiarato di non voler avere nulla a che fare con il conflitto siriano. Con i russi in ritirata, le forze curdo-siriane sono strette a nord dalla Turchia e a sud-ovest dagli insorti arabi. Per questo, le autorità curdo-siriane hanno proposto un progetto di transizione per una Siria «unita e democratica», l’unica formula che consentirebbe a tutte le comunità siriane di essere incluse nella difficile costruzione del post-Assad.
Tuttavia, il modello di cantonizzazione su base etnica e religiosa rischia di prevalere, mantenendo la Siria debole e vulnerabile ancora per anni. Per questo, c’è chi oggi gioisce per la caduta di Assad ma rimane in silenzio preoccupato.
© Riproduzione riservata