Gli Assad in Siria si sono dissolti. Ma la Siria, a sole tre ore di volo da Roma, ha ora più bisogno che mai del lavoro dei suoi cittadini, rimasti in patria o della diaspora, per contribuire a rimettere in piedi un paese tramortito da 14 anni di guerra, frammentato territorialmente, occupato militarmente da eserciti stranieri, in ginocchio per la peggiore crisi finanziaria della sua storia.

In questo senso va letto il documento programmatico per la Siria di oggi e di domani preparato nei convulsi giorni che hanno preceduto e seguito la caduta del regime di Damasco da Omar Abdulaziz Hallaj, uno dei siriani in questi anni più attivi dietro le quinte della politica, della diplomazia e del sostegno alla società civile.

Il memorandum – pubblicato dall’Issam Fares Institute dell’American University di Beirut – diffuso nei giorni scorsi e preparato assieme a Zeidoun Zoubi, anche lui da anni molto coinvolto coma Hallaj nei negoziati inter-siriani, individua quattro principali sfide per il presente della Siria post-Assad.

Le sfide 

Prima: la frammentazione politico-militare del paese con una sovrapposizione, nelle varie zone, di modelli di governance anche molto diversi tra loro. Seconda: il collasso economico e la grave crisi umanitaria. Terza: l’insicurezza persistente, dovuta non solo a conflitti armati più o meno localizzati ancora in corso, ma anche al riemergere di forme di insurrezione come l’Isis, così come la produzione e il traffico di droga e di esseri umani. Quarta: l’esplosivo contesto regionale con l’escalation militare israeliana e l’instabilità nei vicini Libano e Iraq.

Anche dopo la «liberazione dalla dittatura», la Siria si presenta divisa in quattro principali aree sotto il controllo o l’influenza di potenze straniere e gruppi locali. Tra questi, Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts) ha consolidato il controllo su circa il 55 per cento del territorio, inclusa la capitale Damasco, pur non esercitando il pieno dominio su tutto il paese.

Come sottolineano Hallaj e Zoubi, ancora oggi permangono di fatto sette diversi modelli amministrativi distinti, «ciascuno con specifiche strategie economiche e di sicurezza che complicano ulteriormente ogni tentativo di unificazione nazionale». Ogni zona applica le proprie regole, spesso in competizione tra loro, «con un’imposizione monopolistica della violenza».

Da un punto di vista economico «il collasso è totale, con condizioni di povertà estrema diffuse in tutto il paese». Il salario medio dei dipendenti pubblici, principale fonte di reddito per molti, è fermo a meno di un dollaro al mese, ben al di sotto della soglia di povertà. Il governo di transizione, emanazione di Hts, ha già promesso che aumenterà gli stipendi del settore pubblico del «300 per cento», una misura che, da sola, potrà aiutare i nuovi signori di Damasco a mantenere consenso, ma che difficilmente servirà ad affrontare i problemi strutturali del paese.

Questi, secondo Hallaj e Zoubi, sono il risultato di una serie di fenomeni presenti da molto tempo: corruzione dilagante, inefficienza istituzionale, sanzioni occidentali; dilagante economia di guerra. In questo contesto, la crisi umanitaria (più di 12 milioni di siriani hanno dovuto da anni lasciare le loro case) «è resa più acuta dall’incapacità degli aiuti internazionali di rispondere adeguatamente ai bisogni della popolazione».

Un contesto difficile

Anche perché la Siria post-Assad non si è improvvisamente trasformata in un paese sicuro. Mentre gli Stati Uniti e la Turchia, membro della Nato, negoziano la spartizione nel nord-est del paese, per anni dominato da forze curde espressione del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), gli ascari di Ankara proseguono le offensive anti-curde nella valle dell’Eufrate. Nelle zone a ovest del fiume, insorti locali, ancora affiliati all’Isis ma in cerca di potenziali nuovi datori di lavoro, si sono mobilitati in cerca di nuovi spazi da attrarre sotto il loro volatile controllo.

Il contesto regionale aggrava ulteriormente la situazione. L’offensiva di Hts su Aleppo è cominciata nelle stesse ore in cui entrava in vigore il fragilissimo cessate-il-fuoco in Libano tra Hezbollah e Israele. Tra novembre e dicembre lo Stato ebraico ha accelerato la sua attività militare in tutto il quadrante attorno al Golan, dimostrando ancora una volta che gli scenari siro-libanesi sono un unico fronte di guerra e di instabilità cronica.

La governance

La luce alla fine del tunnel è però visibile, secondo Hallaj e Zoubi, a patto che siriani e loro partner stranieri concepiscano assieme un percorso verso la stabilità con «approcci graduali e realistici». La questione della frammentazione politica andrà affrontata adottando un sistema di governance decentralizzato, con un centro di potere presente e strutturato, capace di delegare a dei consigli locali finalmente dotati di risorse finanziarie perché possano lavorare assieme e concretamente con le comunità sul territorio.

La creazione di condizioni economiche favorevoli sarà vitale per sostenere il ritorno della marea di rifugiati che ora premono, fortemente vulnerabili, alle frontiere libanesi e turche. A queste si aggiungeranno presto decine di migliaia di siriani respinti di fatto dai contesti europei.

Perché i rifugiati non diventino l’ennesimo fardello sulle spalle della Siria post-Assad, le sanzioni internazionali dovranno almeno essere allentate, scrivono Hallaj e Zoubi. E gli aiuti umanitari non dovranno essere concepiti come una carità a fondo perduto, ma trasformati in sostegno allo sviluppo sostenibile e alla ripresa economica. Inoltre, «occorre sviluppare infrastrutture civili che possano rispondere alle esigenze delle comunità di ritorno».

Un altro tema cruciale è quello «dello smantellamento delle milizie e della reintegrazione degli uomini armati in un apparato di sicurezza nazionale». Segnali positivi arrivano da Hts che ha annunciato un’amnistia per i militari governativi, ribadendo l’intenzione di mantenere in piedi l’esercito regolare, pilastro istituzionale dello stato, evitando così, almeno per ora, gli errori fatti nel dopo-Saddam in Iraq o nel dopo-Gheddafi in Libia.

La nuova costituzione 

Più in generale, bisognerà quanto prima affrontare il tema della definizione di una nuova costituzione. Quella del 2012 è stata sospesa per tre mesi da Hts. Hallaj e Zoubi insistono nel dire che «la stesura di una nuova costituzione deve essere adattata al contesto siriano e accompagnata da riforme progressive, che costruiscano fiducia tra le parti».

Questo processo dovrebbe «includere garanzie di partecipazione per tutti gli attori coinvolti», non soltanto quelli che oggi si presentano come i vincitori, i “liberatori” e i “rivoluzionari”. Soprattutto, scrivono Hallaj e Zoubi, la nuova costituzione dovrà tener conto del nuovo contesto siriano e dare molta attenzione alle esigenze delle diverse realtà.

In tal senso, come già indicato dalla risoluzione Onu n.2254 del 2015, la comunità internazionale è chiamata a «facilitare il dialogo tra le parti per costruire un processo inclusivo e sostenibile». Tutto questo, però, «non potrà avvenire senza un consenso internazionale». Bisognerà «coinvolgere gli attori regionali principali, come Turchia e Arabia Saudita», per «gettare le basi per un consenso più ampio» con l’obiettivo di ridurre gradualmente la presenza degli eserciti stranieri. Perché la Siria possa concretamente ritrovare la sua integrità e autonomia.

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