Dopo oltre 10 anni di pontificato emergono limiti e pregi della squadra di governo di papa Francesco. La debolezza della comunicazione vaticana rischia di diventare un problema serio per un pontefice ormai anziano che ha fatto dell’immediatezza la sua forza nel dialogo con il mondo.
Chi sono i più stretti collaboratori di papa Francesco? La girandola di nomi e di nomine che accompagna fin dal principio il pontificato e che prosegue tuttora, fa sì che la domanda sia meno retorica o scontata di quanto possa sembrare. In effetti, Bergoglio, è arrivato a Roma nel 2013 senza conoscere – come era ovvio – gran parte del mondo curiale e della chiesa italiana; verso queste due realtà, che almeno un po’ coincidevano, ha sempre mostrato diffidenza e insofferenza, e in questo è stato ampiamente ricambiato.
Va anche detto che il mandato ricevuto in conclave dal papa argentino era chiaro: la curia vaticana preda di scandali e lotte di potere interne che stavano distruggendo la credibilità dell’istituzione, andava riformata e, per quanto possibile, deitalianizzata; su questo concordavano cardinali di diverso orientamento. Inevitabile che Francesco, date tali premesse, si sia mosso come chi è costretto a camminare su un campo minato.
Debolezza comunicativa
Ma dieci anni dopo e passa, è lecito chiedersi: cosa sta succedendo? Un punto di fragilità, emerso con chiarezza nel contesto della guerra in Ucraina, è una debolezza comunicativa che va di pari passo con l’incedere dell’età del papa. Se infatti la forza comunicativa di Bergoglio è sempre stata l’immediatezza, il colloquio informale e franco, su un terreno scivoloso come quello dell’attuale conflitto, i rischi di dire parole fuori luogo si moltiplicano; da ultimo è stato il caso delle frasi pronunciate in modo improvvido come ammesso da lui stesso, sulla “grande madre Russia”, su Pietro il grande e Caterina II.
E indubbiamente qui si sente la mancanza di uno “spin doctor” adeguato, di un portavoce all’altezza della situazione. Va detto che il dicastero per la comunicazione, guidato da un laico pur di grande esperienza come Paolo Ruffini, fino ad ora si è sentito poco o nulla, né i media della Santa Sede hanno brillato particolarmente rispetto al passato.
La confusione nei media
Da diversi anni non c’è più il gesuita padre Federico Lombardi a dirigere la Sala stampa della Santa Sede, che ha lasciato incarico nel 2016 e non pare che i diversi successori laici siano stati all’altezza della prova. Anche l’Osservatore romano, pur diretto con acume culturale e capacità innovativa da Andrea Monda, non riveste però più quel ruolo di voce ufficiale o ufficiosa, che poteva supportare, "spiegare”, sostenere il magistero del papa, magari proprio nei momenti di maggior difficoltà.
Restava, in grande spolvero va detto, la Civiltà Cattolica diretta da padre Antonio Spadaro, che però è stato allontanato nei giorni scorsi dalla direzione della rivista dopo 12 anni di successi editoriali, non per sua volontà ma per decisione del vertice della Compagnia di Gesù, ovvero per volere del padre generale Arturo Sosa Abascal alla guida dei gesuiti dal 2016.
Spadaro fece la prima storica intervista a papa Francesco, pubblicata nel settembre del 2013, nella quale si annunciavano molte delle linee guida del pontificato; poi diede il via, come ha spiegato di recente, alla pubblicazione dei colloqui fra il papa e i gesuiti che si svolgevano nei vari paesi visitati da Francesco nel corso degli anni. Importante è sapere che tutti questi testi venivano rivisti dal pontefice, per cui immediatezza sì, ma anche controllo. Ora Spadaro è stato chiamato dal pontefice in Curia come sottosegretario al dicastero della cultura e vedremo se riuscirà ancora a trovare il modo di “accompagnare” il magistero del papa.
Il nodo gesuiti
D’altro canto la sensazione è che qualcosa si sia rotto fra la Compagnia di Gesù e il pontefice, quasi che il protagonismo del primo papa gesuita della storia avesse finito un po’ per svuotare di significato l’Ordine fondato da Ignazio di Loyola. È pur vero che gli ultimi anni, pure per i gesuiti, sono stati segnati dalla gravità dello scandalo degli abusi sessuali. Da ultimo ha fatto scalpore il caso di Marko Rupnik, artista e teologo di fama mondiale travolto da una serie di accuse e testimonianze drammatiche. La gestione della sua vicenda da parte dei gesuiti è stata all’insegna delle reticenze e delle difese d’ufficio almeno in una prima fase, solo sulla spinta dell’opinione pubblica sono stati presi provvedimenti più severi; la storia di Rupnik, non ancora conclusa nelle sue conseguenze per altro, ha lasciato il segno.
In ogni caso il papa in Vaticano può contare almeno su due gesuiti fra i suoi più stretti e fidati collaboratori; in primo luogo il canadese Michael Czerny, prefetto del super dicastero sociale “per il servizio dello sviluppo umano integrale” (sua è, per esempio, l’elaborazione compiuta insieme al dicastero della cultura, del rifiuto della “dottrina della scoperta” in base alla quale per lunghi decenni le chiese cristiane avevano sostenuto il colonialismo nelle Americhe). C’è poi l’importante ruolo ricoperto dal cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich, che sarà relatore generale alla prossima attesa assemblea generale sinodale in programma a Roma nel mese di ottobre.
Hollerich, che appartiene all’ala riformatrice, è però uomo capace di mediare ed è consapevole della complessità delle correnti di pensiero che attraversano la Chiesa, non per caso il papa lo ha nominato nel C9, ovvero nel consiglio ristretto di cardinali che lo coadiuvano nel governo della Chiesa universale. In generale, tutta la struttura curiale cui è demandata l’organizzazione del sinodo, sembra abbastanza solida: dal cardinale Mario Grech a suor Nathalie Becquart.
Parolin e la guerra
Se poi Francesco ha nominato due uomini di fiducia nei mesi scorsi in due dicasteri chiave come quello per la dottrina della fede e quello per i vescovi (diretti rispettivamente dai cardinali di prossima nomina Victor Manuel Fernandez di origini argentine e dallo statunitense missionario Robert Prevost), più complesso appare il rapporto con la Segreteria di Stato.
Non è certo in discussione, in questo caso, la qualità del cardinale Pietro Parolin, né la sua capacità di assecondare le intenzioni del papa, e tuttavia indubbiamente vi sono segnali di logoramento nel rapporto istituzionale. In particolare, la vicenda del processo Becciu sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, tuttora in corso, ha comportato un ridimensionamento dei poteri della stessa Segreteria, soprattutto in ambito finanziario.
Sul piano diplomatico, Parolin si è mosso in ogni caso con grande abilità, assecondando la volontà del papa nella gestione del dossier cinese come pure su altri scenari dello scacchiere internazionale. Tuttavia resta non del tutto definito il suo ruolo nella crisi ucraina che il papa ha gestito fino ad ora non appoggiandosi più di tanto alla diplomazia tradizionale con qualche goffaggine di troppo (per quanto un lavoro dietro le quinte viene comunque svolto alla Segreteria di Stato); un fatto tutt’altro che secondario se si considera l’importanza decisiva che avrà nel tempo a venire il conflitto in corso, nel definire gli equilibri geopolitici mondiali.
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