Un secchio e una piccola falce erano i rudimenti con cui le circa quattromila donne tunisine partivano da casa ogni mattina all’alba da ottobre a maggio per la pesca delle vongole. Utilizzavano una tecnica semplice: si raschia e rovista nella fanghiglia dei fondali costieri o lagunari, fino a un massimo di profondità di venti centimetri, in attesa che il falcetto sbatta contro il guscio di una vongola.

Un lavoro faticoso, artigianale, ma che costringe le donne a rimanere con la schiena chinata per tantissime ore in cambio di un misero guadagno a cottimo imposto da intermediari locali, spesso parenti o amici, con cui è difficile trattare.

Ma questo è soprattutto un lavoro precario, svolto senza alcuna tutela sanitaria e protezione sociale. Le entrate dipendono molto dalla stagione e dall’eventuale chiusura delle aree di pesca in caso di contaminazione ambientale o per mal tempo. In media, prima della chiusura dell’introduzione dei divieti da parte del governo tunisino, venivano esportate circa 700 tonnellate di vongole l’anno.

Quantitativi non indifferenti ma lontani da quelli prodotti dai grandi impianti di acquacoltura presenti in Europa, Stati Uniti e Cina che contribuiscono a rispondere alla domanda mondiale. Stando agli ultimi dati della Fao, la Cina si conferma il più importante esportatore al mondo di vongole, rappresentando da sola il 60 per cento delle esportazioni globali.

Ma oggi, le vongole veraci tunisine rischiano di scomparire, nonostante un progetto della Fao che è riuscito a migliorare le condizioni di lavoro delle pescatrici, le quali, per anni, sono state sfruttate in cambio di miseri guadagni dai commercianti locali.

La mano dell’uomo e il cambiamento climatico

Operazione di pesa delle vongole dopo la pesca. Foto: Valerio Crespi Fao

Il Golfo di Gabès, le coste di Medenine, l’Isola di Kerkennah e la regione di Zaboussa (nel governatorato di Sfax) sono tra le aree in cui questi molluschi si trovavano in maggiore quantità prima che la pesca intensiva, il cambiamento climatico e l’inquinamento dell’area costringessero il ministero dell’Agricoltura tunisino a introdurre dei divieti di pesca molto stringenti, entrati in vigore nel 2021 e che dureranno almeno tre anni, bloccando di fatto la produzione nazionale e le esportazioni verso il mercato estero.

A confermare la sospensione della pesca è anche Safa Beajoui, dottoressa in Scienze biologiche dell’università di El Manar a Tunisi. «La campagna di vongole è stata chiusa per tre anni a causa dell’eccessivo sfruttamento. Infatti, lo stock è diminuito in modo notevole e grave, per cui lo stato ha varato una legge che vieta la raccolta e lo sfruttamento delle vongole fino al nuovo censimento della popolazione».

Prima della sospensione della pesca, le vongole tunisine della specie Ruditapes decussatus  – rimaste tra le ultime all’interno del Mediterraneo, secondo l’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao)  – arrivavano soprattutto nei banconi delle pescherie di Italia e Spagna. 

Non era difficile trovarle, per esempio, nel litorale romano dalle parti di Anzio e Nettuno. Oggi, però, non ci sono più. «Non le stiamo commercializzando perché non si trovano, per ora vendiamo le vongole allevate qui in Italia. Quando c’è la possibilità le acquistiamo sempre ma a differenza di altri anni è da un po’ di tempo che non ci sono più», dice un dipendente di De.mar un’azienda di forniture ittiche nel pontino.

«Avevano già un costo alto anche se dipende molto dalle dimensioni delle vongole, ma bene o male si compravano con prezzi intorno ai 15-17 euro al chilo e poi le rivendevamo con un margine di guadagno del 30-40 per cento», aggiunge.

Le esportazioni verso l’Italia sono sempre state floride e il ministero dell’Agricoltura tunisino ha avviato una convenzione con il Centro ricerche marine (Crm) di Cesenatico per il monitoraggio e la ricerca delle biotossine presenti all’interno delle vongole che arrivavano in Italia. In poche parole, a Cesenatico si verifica se il prodotto proveniente dal nord Africa rispetti la normativa sulla sicurezza alimentare dell’Unione europea.

«La convenzione è ancora vigente», dice Stefania Melandri, direttrice responsabile assicurazione qualità del Crm. «Ma già da qualche anno il ministero non ci invia più i campioni per le analisi soprattutto per mancanza di prodotto da analizzare conseguente alla chiusura delle aree al mercato esterno». E così rimangono principalmente le vongole nostrane, ma la produzione è calata negli ultimi anni.

Stando ai dati citati dall’Istat in un rapporto del 2020 le vongole prodotte in Italia sono state 14.660 tonnellate nel 2015, 16.283 nel 2016, e 11.802 nel 2017. La maggior parte di queste sono della specie Ruditapes philippinarum prodotte in allevamenti della regione adriatica.

Il progetto della Fao

Pescatrici che tornano dopo una giornata di lavoro. Foto: Valerio Crespi Fao

Per rimediare alle condizioni di sfruttamento lavorativo delle pescatrici tunisine – condizioni che non si allontanano molto da quello che in Italia chiamiamo caporalato – è intervenuta la Fao che ha siglato un accordo di equo commercio e solidale con l’Associazione continuità generazionale (Acg) – rappresentante delle raccoglitrici di vongole – il Prince Export Centre for Clams (uno stabilimento di depurazione ed esportazione tunisino) e la società importatrice italiana Pesca Pronta con sede a Fiumicino.

L’accordo è stato raggiunto dopo diverse trattative nel 2018 e inizialmente «ha avuto un grande successo» dice Valerio Crespi, funzionario Fao responsabile della pesca e dell’acquacoltura. Sono stati aumentati i guadagni in modo tale che le pescatrici non fossero costrette a effettuare una pesca intensiva, rispettando l’ecosistema marino.

Dopo l’accordo il prezzo di un chilo di vongole pagato alle donne pescatrici è passato da otto dinari (circa 2,60 euro) a 18 dinari (circa 5,75 euro). Inoltre, sono stati previsti anche bonus e premi per le pescatrici che raccoglievano vongole di grandi dimensioni per arrivare a una pesca più sostenibile.

Oggi le barchette che trasportavano le pescatrici non arrivano più in laguna. Piccole quantità di vongole vengono pescate solo a Sfax e a Medenine, mentre nel Golfo di Gabès non ce n’è più traccia. «La crisi climatica, la pesca intensiva e l’inquinamento delle industrie chimiche presenti lungo la costa hanno fatto scomparire le vongole», dice Valerio Crespi. Il progetto è sospeso e migliaia di donne sono rimaste senza lavoro.

Le pescatrici di Sfax continuano a lavorare nella raccolta ma i prezzi sono cambiati nuovamente. Le risorse sono veramente poche e per raggiungere un raccolto minimo bisogna lavorare molte ore. Nelle altre aree, invece, molte pescatrici hanno cambiato lavoro. C’è chi è riuscito a riciclarsi nel settore agricolo o nella pesca del granchio blu, una nuova specie venuta dal Mar Rosso attraverso il canale di Suez di cui la Tunisia è molto ricca. Ma anche per l’agricoltura i problemi non mancano.

Negli ultimi anni intorno alla città di Gabès i territori coltivabili sono diminuiti drasticamente, le sostanze chimiche rilasciate da uno dei più grandi complessi chimici del paese hanno inquinato gran parte del territorio, dell’aria e delle falde acquifere, costringendo sempre più contadini locali a mettere da parte l’aratro. A questa difficile situazione ambientale si somma l’alto tasso di disoccupazione (circa il 16 per cento), e la grave crisi socio-economica che attanaglia il paese che sta spingendo migliaia di donne e uomini a emigrare in Europa in cerca di condizioni di vita migliori.

L’acquacoltura

La speranza è che il prima possibile dalla pesca a mano si passi a produrre le vongole attraverso gli allevamenti di acquacoltura, come accade già da tanti anni in Europa e in altre parti del mondo. Ma ci sono diversi ostacoli legali in Tunisia per praticare l’acquacoltura delle vongole dovuti principalmente agli aspetti sanitari e di depurazione del prodotto prima della vendita.

«Stiamo lavorando insieme al governo e agli istituti di ricerca tunisini per trovare una soluzione», dice Crespi. «L’ideale sarebbe dare vita ad impianti di allevamento gestiti da cooperative di donne in modo da generare profitto e migliorare le condizioni di vita delle comunità costiere locali», in linea con lo spirito del progetto iniziale. Ma ad oggi la situazione è grave e non più sostenibile. «Queste donne hanno perso il lavoro e non hanno alcun tipo di protezione sociale e vanno aiutate», conclude Crespi.

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