Il rais è il vero vincitore della partita siriana e ora proverà a dare le carte. Dopo aver spazzato via Iran ed Hezbollah, Ankara sfida anche i sauditi
Dopo la caduta lampo di Assad, ormai riparato a Mosca, gli attori regionali ed extraregionali coinvolti nella partita mediorientale guardano al dopo. Nel tentativo di capire come volgere a proprio vantaggio i profondi mutamenti strategici intervenuti nell’area o, quanto meno, ridurne l’impatto.
Hezbollah senza ossigeno
A partire da Iran e Hezbollah, sicuri perdenti in questi frangenti. Tenere teso l’arco sciita tra Teheran e Beirut senza contare su Damasco è assai complicato. Il crollo del regime di Assad fa evaporare la strategia costruita in Siria dal generale Soleimani, capo della forza Al Quds dei Pasdaran, eliminato dagli americani nel 2020. Una sconfitta, quella siriana, che Teheran non può compensare con la sempre maggiore influenza in Iraq, esito, oltre che della penetrazione politica, di quella religiosa: con la crescente diffusione dello sciismo di matrice khomeinista nei seminari delle città sante sciite irachene – a partire da Najaf – a scapito di quello tradizionale e storicamente dominante che fa capo alla scuola dell’ayatollah Sistani.
Perdere la Siria, sino a pochi giorni fa retroterra logistico di Hezbollah e spazio-ponte della proiezione di potenza iraniana verso il quadrante mediterraneo, è una catastrofe geopolitica per Teheran: l’ennesimo colpo incassato, dopo il drastico indebolimento militare dei suoi proxies per mano di Israele.
Come riarmare ora il Partito di Dio, in un contesto in cui i cieli sono sotto l’occhiuto controllo di Israele e la via di terra è sbarrata dai siriani divenuti alleati della Turchia? Situazione che potrebbe indurre Teheran ancor più sulla difensiva, evitando mosse che possano esporre il regime a nuovi, letali, contraccolpi. Anche se non è escluso che la nuova, umiliante, dinamica regionale acceleri lo scontro tra quanti pensano a un prudente ripiegamento nell’arena internazionale che consenta la continuità del regime, e quanti, di fronte a uno scenario minacciosamente mutato, vedono nella corsa al nucleare militare l’unica vera garanzia di sopravvivenza per il potere di turbanti ed elmetti. Secondo i “falchi”, se la cintura di protezione esterna viene meno non resta che la bomba.
Quanto a Hezbollah, ha accettato la tregua con Israele per rifiatare e riorganizzarsi, ma si trova ora senza retroterra, situazione che rende più difficile ricostituire il suo arsenale. Inoltre, il trionfo di una coalizione sunnita in Siria rilancia le ambizioni nel Paese dei cedri sia della Turchia, che in un’ottica neottomana si erge a protettrice del mondo sunnita mediorientale persino all’ombra delle falesie di Beirut, sia dei Paesi del Golfo che pure in Libano avevano rinunciato a esercitare un ruolo dopo il consolidamento del potere di Hezbollah.
La sconfitta di Putin
Tra i perdenti vi è, ovviamente, la Russia, che ha a lungo sostenuto Assad nel quadro dell’alleanza con l’Iran e durante la guerra civile in funzione anti Isis, e deve ora assicurare la permanenza delle sue basi aeree e navali a Latakia e Tartus, fondamentali nello storico disegno dello sbocco ai “mari caldi”, in un contesto in cui quella presenza non è più fuori discussione, ma va negoziata, oltre che con un leader senza più alias come Amhad al Sharaa, anche con Ankara.
Le incognite per Bibi
Forse non è tra i perdenti, ma di sicuro si colloca nel limbo dei non vincenti, Israele. Netanyahu ha rivendicato l’aver colpito, anche in Siria, Iran e Hezbollah, contribuendo attivamente alla caduta di Assad, ormai privo di difesa. Come spesso hanno fatto con i nemici gli israeliani, Bibi ha guardato a lungo ad Assad come a un male minore: la condizione in cui versava il suo regime negli ultimi tempi era ideale per Tel Aviv. Assad non aveva mai replicato – non era in grado di farlo – agli attacchi dell’Idf in territorio siriano.
Il timore di Netanyahu è che ora la coalizione sunnita guidata da Sharaa, composta da forze di matrice islamista radicale e neotradizionalista e da gruppi filoturchi di vario orientamento, si riveli altrettanto ostile allo stato ebraico. Del resto, pensare che gli ex-jihadisti “ripuliti”, o “ufficialmente” tali, così come la costola siriana dei Fratelli musulmani, storicamente radicata nel paese nonostante la pesante repressione subita a opera di Assad padre e figlio, non si schierino, come del resto fa il loro protettore Erdogan, con i “fratelli di Hamas”, sarebbe ardito. Certo, questo nuovo fronte antisraeliano non avrebbe il peso militare di Pasdaran e Hezbollah, né è ipotizzabile che un paese Nato come la Turchia possa sostenerlo attivamente contro Israele: gli Usa si metterebbero di traverso.
Non per questo la coalizione sunnita siriana si mostrerà meno ostile. Mescolamento di carte che potrà avere contraccolpi anche sugli Accordi di Abramo. Se la Turchia si erge a protettrice del mondo sunnita, entra in concorrenza con l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, che difficilmente potrebbero mostrarsi inclini a un accordo con Israele.
I timori israeliani sui nuovi vicini sono divenuti subito evidenti: non solo l’Idf ha schierato le truppe lungo la Linea Alpha, all’interno della zona smilitarizzata al confine tra Siria e Israele, e occupato il versante siriano del Monte Hermon, per impedire agli insorti siriani di accedervi, Netanyahu ha anche dichiarato decaduti gli accordi in materia del 1974, ennesimo episodio della politica del fatto compiuto che non piacerà ai padroni di Damasco.
Il vincitore Erdogan
Quanto al vincitore Erdogan, guida della Turchia ma anche leader di un partito vicino alla Fratellanza musulmana come l’Akp, ha coltivato spregiudicatamente la sua politica neottomana. Nell’intento di massimizzare la rendita politica del suo paese, si è mosso senza troppe remore in Siria. Proponendosi come garante, e protettore della popolazione sunnita, emarginata da oltre mezzo secolo di potere clanico-familiare, in versione alawita, della dinastia Assad, e accentuando la penetrazione nelle vicine aree oltre confine. Mossa che ha il duplice obiettivo di presidiare un’area dove far rientrare i molti profughi siriani riparati in Turchia durante la guerra civile e dalla quale muovere per andare alla resa dei conti con le Forze democratiche siriane guidate dai curdi del Ypg che controllano l’est del paese.
Davanti a Trump, Erdogan intende presentarsi come l’uomo che ha messo in difficoltà l’Iran e Hezbollah, e indebolito la Russia disarcionando un suo alleato. Come “ringraziamento” chiederà alla Casa Bianca di avere mano libera nel Rojava contro i curdi, sin qui garantiti dagli Usa.
Se non la ottenesse, gli basterà girare il suo volto bifronte verso oriente e ritagliarsi il ruolo di tessitore di una nuova tela siriana con Russia e Iran all’interno del format di Astana. Favorendo magari, al contempo, una mediazione tra Washington e Mosca sulla vicenda ucraina dopo aver fornito ai russi la garanzia che le loro basi resteranno in Siria.
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