Lunedì 28 giugno la ministra della Giustizia Marta Cartabia sarà a Milano per un incontro sui temi del processo. L’ex presidente della Consulta si è fatta precedere, però, dai suoi ispettori, inviati alla procura della Repubblica più famosa d’Italia per raccogliere documentazione e informazioni sulla faida che sta arroventando l'aria al quarto piano del palazzone disegnato dall’archistar fascista Marcello Piacentini.

L’ispezione di routine era prevista per novembre, ma il deflagrare della guerra tra alcuni dei più noti pubblici ministeri dell’ufficio milanese ha costretto la ministra a far sentire la propria voce in anticipo sui tempi previsti. Un atto dovuto dopo l’apertura di ben due fascicoli d’inchiesta a Brescia, la procura competente a indagare sui magistrati milanesi, e di un procedimento disciplinare al Consiglio superiore della magistratura.

I protagonisti di questa complicata vicenda che intreccia alcuni processi e indagini che toccano il nostro colosso energetico, l’Eni, sono diventati nelle ultime settimane nomi assai noti anche al grande pubblico. In primis quello del pm Paolo Storari, già allievo prediletto di Ilda Bocassini, regina indiscussa dell’antimafia milanese. Sulla sua scrivania fa bella mostra del libro “Too big to jail” (“Troppo grandi per il carcere”), del giurista americano di legge Brandon Garrett. Una ispirazione per chi deve perseguire le grandi multinazionali e preferisce risultati pragmatici alle battaglie campali: a quei principi si è uniformato quando ha concesso il patteggiamento da 11,8 milioni di euro a Eni per una presunta corruzione in Congo, derubricata in «indebita induzione» dopo l’accordo sul risarcimento.

Storari, che non appartiene a nessuna corrente politica della magistratura, ha fatto deflagrare la battaglia di Milano con la consegna brevi manu nell'aprile dello scorso anno dei verbali d’interrogatorio secretati dell’avvocato corruttore Piero Amara a Piercamillo Davigo, all’epoca membro del Consiglio superiore della magistratura.

Quei verbali sono stati raccolti tra fine 2019 e inizio 2020 durante le indagini sul “complotto” che alcuni dirigenti dell’Eni avrebbero ordito ai danni del pool di Fabio De Pasquale che indagavano su presunte tangenti pagate in Algeria e Nigeria. All’interno ci sono i nomi della presunta loggia «Ungheria» nel quale sarebbero stati cooptati magistrati e pezzi dello stato.

Storari ha raccontato ai pm di Brescia, che lo indagano per rivelazione di un segreto istruttorio, che avrebbe voluto saggiare la credibilità di Amara aprendo indagini formali sulle informazioni contenute in quei verbali, ma non era d’accordo il suo capo Francesco Greco. Il procuratore, infatti, avrebbe voluto raccogliere evidenze ritardando il più possibile gli atti ufficiali, per non allarmare nessuno.

Greco è ritenuto da alcuni colleghi milanesi un interprete del «rito ambrosiano»: un insieme di accortezze nell'utilizzo dell'azione penale attente ai complessi equilibri economico politici del potere economico-finanziario d’Italia. Un esempio estremo fu lo stop alle indagini sull’allora commissario Expo Beppe Sala ai tempi in cui il capo della procura era Edmondo Bruti Liberati.

La sentenza Eni

Per comprendere questa storia che sta terremotando la procura bisogna tornare al 17 marzo, quando viene emessa la sentenza del processo Eni- Shell Nigeria. Un’assoluzione dal reato di corruzione internazionale per tutti gli indagati, a partire dall'amministratore delegato Claudio Descalzi, nell’affare dei diritti di esplorazione del campo offshore Opl 245.

Dopo la sentenza il procuratore capo Greco era stato attaccato nella chat dell’ufficio proprio da Storari, con una frase finita poi sulla stampa: «Francesco, per favore, non prenderci in giro, io so quello che è successo e un giorno andrà detto. Fino in fondo».

Quel giorno è arrivato e, un mese fa, davanti ai pm di Brescia, Storari ha snocciolato la sua opinione sulla conduzione del processo Eni Nigeria da parte del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si occupa di Eni da 30 anni, e del pm Sergio Spadaro.

I due non avrebbero tenuto in considerazione le indagini di Storari sull’ex manager Eni Vincenzo Armanna (allontanato nel 2013 dalla società), finito tra gli indagati del «complotto» e già imputato nel processo Eni Nigeria, nel quale ha assunto anche il ruolo di grande accusatore dei vertici della multinazionale petrolifera.

Armanna, per Storari, sarebbe soltanto un grande mentitore, così come Amara. Storari ha portato quelle che considera le prove a sostegno di questa convinzione (in particolare, un video di un incontro tra Armanna e Amara) ma i due pm del processo Nigeria le avrebbero ignorate. Per De Pasquale e Spadaro, ora indagati da Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio, non sarebbero stati indizi utili a scagionare i vertici Eni ma solo ad aggravare la posizione di Armanna. E lo zelo del collega sarebbe risultato sospetto, soprattutto agli occhi di chi già crede di essere stato già oggetto di un depistaggio.

Molte domande resteranno sospese fintanto che non sarà chiusa l’indagine sul “complotto” (il tentativo di depistaggio del processo Eni Nigeria ammesso da Amara) di cui è titolare l'aggiunto Laura Pedio, che ha lavorato con Storari fino alla scoperta della consegna dei verbali a Davigo. Una mossa che ha messo in difficoltà la collega, considerata vicina a Greco e De Pasquale, che ora si trova a dover gestire da sola questo fascicolo delicatissimo, aperto nel 2017 e in fase di chiusura.

E De Pasquale? Per il momento tace. Abituato a maneggiare inchieste esplosive – è il pm che ha fatto condannare Silvio Berlusconi per frode fiscale – ha una visione diversa da Storari nell’approccio alle inchieste sulle grandi società. Per De Pasquale non esistono soggetti «too big to jail».

Per Francesco Greco, agli ultimi mesi di guida della procura prima della pensione, a novembre, i problemi non finiscono col processo nigeriano. In attesa che vi siano sviluppi da Brescia e da Roma, deve frenare anche il malcontento generale nell’ufficio.

I fronti opposti vedono da un lato coloro che appartengono al «cerchio magico» del capo e dall’altro coloro che ne sono esclusi. L’accusa mossa da alcuni sostituti a Greco è questa: nell'ufficio in questi anni c'è stata una scarsa considerazione per i tanti magistrati che si sono occupati della criminalità ordinaria, di reati meno eclatanti ma che destano la maggiore preoccupazione sul territorio. Alcuni magistrati della procura si lamentano di aver dovuto sopportare un carico di lavoro eccessivo per sgravare i pubblici ministeri dei fascicoli importanti e dare loro tempo e modo per occuparsi delle grandi inchieste.

C'è anche chi ha protestato, nell'ultima assemblea dell'ufficio, in merito al numero di persone esonerate dai vari turni di servizio. Il tutto aggravato da una mancata copertura totale dell'organico, che ha il 20 per cento in meno dei magistrati previsti, a causa anche della partenza di alcuni colleghi (sei in tutto) che hanno superato le selezioni per entrare nella procura europea (Eppo), tra cui lo stesso Spadaro.

La procura rischia a breve di rimanere quasi sguarnita di professionalità nel campo dei reati economici e finanziari, che da sempre è la cifra caratterizzante del palazzo di giustizia meneghino. Al momento i vertici hanno cercato di tamponare l’emergenza riassegnando i fascicoli, tra cui quello complicatissimo relativo al crac Mps, a pm volenterosi ma già oberati di lavoro, ma il problema resta e il nuovo procuratore dovrà affrontarlo.

Anni in questa condizione, raccontano alcune fonti interne al palazzo, hanno demotivato e incattivito molti pm che contestano le scelte del procuratore Greco nel disegnare i dipartimenti (raggruppamenti di magistrati per reati e materie omogenee): sono nati quello degli Affari internazionali, guidato da Fabio De Pasquale, e il super dipartimento che riunisce i reati finanziari, economici e contro la pubblica amministrazione, assegnato a Maurizio Romanelli, dato oggi in corsa per la successione a Greco, insieme agli “esterni” Nicola Gratteri e Paolo Ielo. Di certo, il fallimento dell'inchiesta Eni Nigeria ha dato fiato a chi non aspettava altro che puntare il dito contro la gestione del capo della procura in uscita.

Cosa resta di buono dopo la guerra che ha trasformato la procura di Mani Pulite in una Beirut di tutti contro tutti? Per molti attori di questa complicata filiera della giustizia il «modello Milano» ha comunque funzionato bene, permettendo di recuperare centinaia di milioni di euro di tasse non versate col codice penale in mano, e una capacità innovativa nell’utilizzarlo. Hanno pagato anche i giganti del web come Apple, Google, Facebook, che volano sopra a governi e G7. In questo la procura ha fatto scuola anche all'estero.

Molto bene anche in tema di anti terrorismo, in anni in cui la paura Isis era decisamente alta. Per qualcuno si poteva fare di più, come sempre. Spetterà al nuovo procuratore verificare se sarà possibile.

 

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