Una delle ragioni per cui fatichiamo nella retorica fascista insufflata nel dibattito pubblico da questo governo è che per anni abbiamo discusso di fascismo dando per buone delle interpretazioni astoriche. Ci siamo indignati e allarmati, per l’evidente crescita di segnali fascisti, attraverso categorie semplificate tipo quella del fascismo eterno di Umberto Eco: la riproposizione quasi clonata di forme politiche di un passato autoritario mitizzato.

È la ragione per cui fascismo oggi rischia di diventare una weasel word, come si dice in sociolinguistica, una “parola donnola” che rosicchia dall’interno il suo significato (un termine sembra significare qualcosa di specifico proprio quando invece viene adoperato in modo vago).

Questo sfarinamento del significato è molto utile, nell’opera di confondere le acque, per chi è veramente fascista e può sfruttare questo disordine concettuale per ripetere mistificazioni oscene come quell’espressione “il fascismo degli antifascisti” attribuita, a seconda dei casi, a Pier Paolo Pasolini o e Leonardo Sciascia.

Pasolini e Sciascia

Il primo non l’ha proprio mai pronunciata, e anzi ha combattuto per tutta la vita ogni forma di fascismo; è stato l’editore Garzanti a intitolare così un recente libretto che raccoglie una selezione di Scritti corsari in cui Pasolini affrontava il dibattito degli anni Settanta, provando a titillare un lettore poco informato astraendo fino alla strumentalizzazione l’analisi pasoliniana. L’espressione “il fascismo degli antifascisti” si trova invece in Nero su nero di Sciascia, il suo zibaldone, accanto a altre riflessioni brevi.

Ma proprio due pagine dopo si trova un brano più lungo che sembra chiarire la prospettiva di Sciascia e parlare a oggi: «I fascisti hanno i loro giusti libri, che il fascismo non è più una cosa fatta in casa con scampoli di malcontento e passamanerie dannunziane. Ed è un fatto da tenere in conto, cui fare attenzione: ché troppo si è creduto il fascismo fosse ormai relegato nel folklore.

Eppure questo fascismo più definito e consapevole, intrinsecamente migliorato (e cioè peggiore), non mi preoccupa se non nella prospettiva, di una convergenza parallela con quell'altro indefinito e inconsapevole, indefinitamente e inconsapevolmente disponibile, che si annida e nasconde in luoghi insospettabili, sotto diciture rassicuranti: come in un alberello di farmacia su cui si legge bicarbonato e contiene invece arsenico».

Il metodo storico

Sciascia sapeva usare il metodo storico per interpretare anche i suoi tempi. Ed è quella la lezione che dovremmo fare nostra: riconoscere il fascismo del governo e delle schiere sempre più consistenti di corifei, la “controegemonia” come gli piace intitolare la loro guerriglia culturale, come un fenomeno nuovo.

Il fascismo con cui abbiamo a che fare non è (mai) un fascismo eterno, ideale, plastico. Questo per gli storici è diventato sempre più chiaro, anche per chi come Enzo Traverso o David Bidussa negli ultimi anni ha provato a foggiare categorie aggiornate, postfascismo o fascismo metastorico.

Quello che spesso sfugge all’esame del fascismo italiano del 2023 è la concezione che anche di recente gli storici contemporaneisti hanno sottolineato: la modernità del fascismo, a partire da quello del Ventennio. Alessandra Tarquini scriveva qualche anno fa: «Con buona pace di Umberto Eco, che nel 1995 immaginava un urfascismo, una specie di Highlander, il regime mussoliniano non fu tradizionalista».

I fascisti di governo, quelli che occupano ministeri e Rai, non sono (o almeno non si sentono) nostalgici, ma nuovi, fondativi. Perciò per interpretare questo fascismo va studiato cos’è stato il fascismo soprattutto dal 1919 al 1922 e dal 1943 al 1945, quegli anni che rappresentano i riferimenti politici per i neofascisti dall’inizio della Repubblica, tanto dal Movimento sociale ai gruppi extraparlamentari o eversivi, fino ad arrivare a Fratelli d’Italia.

Fino a poco tempo fa questa era un’eredità catacombale, per decodificarla si potevano usare libri come Fascisti immaginari, che Luciano Lanna e Filippo Rossi scrissero nel 2003. Oggi alcune di quelle categorie vengono pensate invece come dinamiche, trasformative del presente. Più che i bracci sghembi alla parata del 2 giugno quello che ci dovrebbe allarmare è quando Giorgia Meloni parla dal suo account Instagram di “comunità di destino” come pochi giorni fa: è un’idea fondativa di un nuovo concetto di cittadinanza basata non su principi liberali ma su un nazionalismo del sangue e del fato. Di comunità di destino ne parlano i nazisti (Volksgemeinschaft), i teorici di Terza posizione o di Casapound come Gabriele Adinolfi o Aleksandr Dugin.

 

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