«Il cambiamento climatico è un problema per l’agricoltura italiana, ma è un problema che siamo in grado di affrontare, se si mettono in atto i giusti strumenti per contrastarlo». A parlare è Claudio Pennucci, il direttore agronomico di BF Agricola, che fa parte del principale gruppo produttivo dell’agricoltura italiana, BF Spa, l’unico agroindustriale quotato in Borsa, con oltre 11mila ettari di superficie coltivata (oltre a una serie di nuovi progetti di sviluppo in Africa, tra Algeria, Egitto e Ghana).

Quindi stiamo parlando di risolvere i problemi sulla scala più grande, quella delle vaste superfici, con soluzioni che però, una volta testate qui, potrebbero anche essere utilizzate per aziende medie o più piccole. L’adattamento al nuovo clima è una delle principali sfide che i sistemi alimentari italiani hanno di fronte a sé.

Un modello

L’epicentro di questi progetti su come si coltiva in un mondo nuovo è a Jolanda di Savoia, in provincia di Ferrara, a pochi chilometri dall’Adriatico, uno dei siti produttivi più importanti per BF, dove nel 2015 è stata spostata anche la sede legale.

I dati climatici dicono che qui l’innalzamento della temperatura del suolo è già intorno 1,5°C; insomma, i tecnici osservano sul campo quello che i modelli delle temperature registrano per tutta l’Europa: sta facendo sempre più caldo (giugno 2024 è stato il dodicesimo mese di fila sopra 1,5°C rispetto all’era preindustriale, la nostra soglia di sicurezza stabilita dalla comunità scientifica).

L’altro problema è come sono cambiate le piogge. La base era di 600 millimetri all’anno, distribuiti in modo omogeneo e prevedibile: tutto questo non esiste più. In un anno piovoso come questo, siamo a già 480 mm in sette mesi, con intensità importanti, che ne hanno portate giù fino a 100 al giorno. Nell’arido 2022, al contrario, erano stati 400 mm in tutto l’anno.

Governare quantità di pioggia irregolari e imprevedibili (a volte troppo, a volte non abbastanza) è diventata una delle principali sfide per l’agricoltura italiana, che in generale è il settore produttivo del nostro paese più esposto al cambiamento climatico, quello per il quale le soluzioni sono urgenti.

Uno dei motivi per cui Jolanda di Savoia è diventato un laboratorio di sperimentazione di valore nazionale è stato il lavoro fatto sulle cosiddette «cover crop», una tecnica agronomica, di campo. Si tratta di colture di copertura, che in teoria non hanno valore produttivo, ma solo di protezione del suolo e delle altre colture.

Vengono piantate come intercalare tra quelle principali, come il grano o il mais, e lasciate crescere in periodi in cui il campo sarebbe di solito incolto. Sono dei mix di piante, come la senape bianca o le brassicacee (parenti della colza), e rappresentano una soluzione che permette di ammortizzare sul terreno l’effetto delle precipitazioni estreme, migliorare la filtrazione e anche l’immagazzinamento dell’acqua.

Per l’agricoltura, infatti, uno dei problemi dei periodi di pioggia intensa è il ruscellamento, il fatto che il suolo inaridito non riesca ad assorbire l’acqua in eccesso, che viene quindi persa, a volte con effetti distruttivi quando si tratta di un’alluvione.

Queste piante di copertura invece attenuano questo effetto, trattenendo l’acqua nel suolo come un deposito per i periodi di siccità. Inoltre, queste piante, trasformate in soldatini contro la crisi climatica, permettono di mantenere la vegetazione nei mesi estivi, ridurre l’evaporazione, abbassare la temperatura del suolo fino a 5°C, migliorarne la biodiversità, attirare insetti che sono fondamentali per la tenuta degli ecosistemi e tenere allo stesso tempo lontani i parassiti.

L’altro effetto positivo delle piante di copertura usate a Jolanda di Savoia è rendere il terreno più soffice di come sarebbe a nudo, tra una semina e l’altra. In questo modo il suolo diventa più facile da lavorare, si possono usare tecniche meno invasive: si adoperano trattori meno grandi, si riducono le potenze e si riesce anche a bruciare meno gasolio agricolo.

«A Jolanda grazie alle cover crop ormai non abbiamo più bisogno di usare macchinari sopra i 300 cavalli, in questo modo riduciamo sia l’impatto col suolo che le emissioni di CO2», conferma Pennucci. Queste innovazioni partite a Jolanda si sono estese anche agli altri siti produttivi di BF , come a Cortona (Arezzo) e a Marrubiu (Oristano).

Da qui, la nuova buona pratica agronomica di adattamento climatico si può diffondere anche a soggetti medio-piccoli, attraverso la rete dei Consorzi agrari d’Italia, che diventa un vero e proprio sistema di formazione climatica diffusa. Il problema delle cover crop è più che altro economico, dal momento che si tratta di coltivazioni destinate a non essere vendute: per questo oggi è una soluzione adatta soprattutto alle scale produttive più grandi.

Tecnologia

L’altro pezzo di questa storia è la tecnologia. Nel 2021 un progetto di Agenzia spaziale italiana, European Space Agency e Cnr-Irea aveva scelto la produzione BF di Jolanda di Savoia come sito sperimentale all’interno per dimostrare il ruolo fondamentale del dato dell’immagine satellitare nei settori produttivi, sia come supporto all’ottimizzazione delle pratiche agricole sia come monitoraggio degli impatti.

Le nuove tecnologie di monitoraggio agricolo su produzioni estese su migliaia di ettari permettono – attraverso le mappe, integrate con una serie di sensori sul campo – di controllare quasi in tempo reale lo stato di vigoria della pianta e intervenire lì dove è necessario. Tre anni fa sono cambiate anche le metodologie di concimazione a Jolanda di Savoia. Ora vengono fatte sulle foglie.

«Le nuove condizioni climatiche hanno fatto perdere l’efficienza del concime che usavamo in precedenza, l’urea, e dei metodi con cui lo spargevamo. Il degrado di quel concime era diventato molto più rapido».

La soluzione è stata usare la distribuzione direttamente sulle foglie, che è più costosa, ma più efficiente, si integra bene con i monitoraggi in tempo reale fatti con i satelliti e i sensori.

Insomma, da Jolanda di Savoia si vede un’immagine su come l’agricoltura italiana su vasta scala (che non è l’unica in Italia, ma è un pezzo importante dei nostri sistemi alimentari) possa rispondere alla sfida del cambiamento climatico, adattarsi innovando le tecniche agronomiche e usando le nuove tecnologie digitali.

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