I film di Dune ci hanno mostrato la bellezza, il mistero e i segreti delle dune di sabbia presente realmente anche sul nostro Pianeta. Da che l’uomo ha avuto a che fare con esse le dune hanno anche incusso domande e a volte timore per il loro continuo mutare nel tempo. Ed è forse proprio questo che ha attirato, prima di ogni altra cosa, professori come David Thomas dell’università di Oxford che ha dedicato gran parte della vita da ricercatore proprio alle dune.

In un recente articolo apparso su Conversation il ricercatore ha raccontato alcune caratteristiche di queste forme morfologiche che sono sconosciute ai più, a partire, ad esempio, dalla loro composizione. Non esistono infatti, dune composte solo da sabbia, ma anche la cenere, la neve e persino il gesso possono costruirne.

Nel cuore delle dune

Le dune si formano quando piccole particelle vengono mobilitate su superfici nude e asciutte da un vento moderato, accumulandosi dove il movimento è rallentato da un ostacolo o da un’ondulazione della superficie. Dove il vento deposita le particelle poi, queste possono creare un piccolo ammasso contro il quale a loro volta si accumulano altre particelle, fino a formare una duna. Parlando delle dune più note, quelle di sabbia, va detto che quando si parla di “sabbia del deserto”, in realtà per un geologo, quel termine identifica, più che la composizione, le dimensioni delle particelle.

Sabbia è un accumulo infatti, di materiale che possiede dimensioni comprese tra gli 0,06 millimetri e i due millimetri di diametro. Le dune nei deserti e quelle che troviamo lungo le coste marine sono formate principalmente da granuli di tali dimensioni composti per lo più da quarzo e feldspato, due tra i minerali più comuni sulla Terra.

Ma basta spostarsi verso regioni vulcaniche, come l’interno dell’Islanda, ad esempio, ed ecco che le dune possono essere formate da cenere, se poi ci si sposta verso il cuore dell’Antartide, dove si incontra un mondo secco e ventoso, le dune possono formarsi da cristalli di ghiaccio e neve.

Se poi si vuol trovare qualcosa di davvero speciale basta andare nel New Mexico, negli Stati Uniti, dove è il gesso, minerale molto morbido e brillante, a formare le dune: non a caso il luogo si chiama White Sands. Camminare sulle dune è difficile e faticoso grazie all’incoerenza del materiale, ma basta scavare qualche metro sotto la loro superficie ed ecco che la duna si trasforma, per raccontare la propria storia che può essere lunga anche migliaia di anni.

La forma

La forma delle dune è influenzata dalla variabilità della direzione del vento durante l’anno: alcune dune, come le dune a “barcana” hanno una forma a mezzaluna, si muovono in avanti sotto venti abbastanza costanti, con la sabbia che si ribalta regolarmente. Altre, come le dune lineari e stellari, si sviluppano dove le direzioni dei venti sono più variabili, accumulando sabbia fino a spessori di decine e perfino centinaia di metri. Ce ne sono all’infinito su Marte.

Thomas ha utilizzato più e più volte una tecnica chiamata “datazione con luminescenza” per misurare per quanto tempo la sabbia delle dune è rimasta nascosta dalla luce solare, permettendogli così di identificare i periodi in cui le dune hanno smesso di evolversi e i suoli che si formarono sopra di esse, ora sepolti sotto altra sabbia, si svilupparono sulle superfici delle dune magari con climi più umidi.

Nel deserto di Rub’ al Khali in Arabia, ad esempio, gigantesche dune di sabbia lineari si sono formate in diversi periodi di siccità nel corso degli ultimi 130.000 anni (ai quali si alternavano periodi più umidi con formazione di suoli), ma potrebbero anche essere molto più antiche, non lo si sa poiché non è stato ancora possibile perforare fino alla base e stabilire l’intera storia dell’accumulo.

È interessante che le dune sono presenti anche dove oggi non ci sono deserti, come ad esempio sotto l’erba e i boschi di alcune regioni della savana africana come il Kalahari e persino sotto le foreste pluviali tropicali in alcune parti del Sud America. Queste dune testimoniano l’esistenza di deserti del passato e l’evoluzione del clima di tempi lontani.

Ed esiste una scoperta che riguarda le dune di grande importanza per la geologia stessa. Nel 1780, il geologo scozzese James Hutton si rese conto che le caratteristiche arenarie rosse ben stratificate di Siccar Point, sulla costa orientale della Scozia, erano in realtà i resti preservati di antiche dune di sabbia del deserto.

In questa posizione la vecchia “arenaria rossa del Devoniano”, come è ora conosciuta, si sovrappone bruscamente a fini fanghi grigi. Hutton si rese conto che un periodo di tempo considerevole – ora sappiamo che è superiore a 65 milioni di anni – deve essere trascorso tra il deposito delle rocce grigie, levigate dall’erosione, e il deposito delle sabbie rosse sulla superficie.

La sua attenta teorizzazione stabilì le basi della geologia moderna e la nostra comprensione che la Terra era molto più antica della storia calcolata utilizzando i testi biblici.

I dati dei satelliti Swarm

Il campo magnetico terrestre ha un ruolo di grandissima importanza per il nostro Pianeta e riguarda molteplici aspetti. E’ strettamente legato ad esempio, ai più ampi sistemi ambientali e climatici che definiscono l’abitabilità della Terra. Il campo geomagnetico poi, svolge un ruolo cruciale nel preservare l’atmosfera terrestre e, conseguentemente, le condizioni necessarie alla vita.

Agisce come un meccanismo di difesa contro le radiazioni nocive e il materiale estremamente ricco in energia emesso dal nostro Sole, garantendo che la superficie del pianeta rimanga ospitale per la vita biologica. Un vero e proprio scudo, dunque. Uno scudo che serve anche per preservare la nostra infrastruttura tecnologica e il nostro attuale stile di vita. Esso infatti, protegge la navigazione e le operazioni satellitari, servizi essenziali per i sistemi di posizionamento globale (GPS), le telecomunicazioni e per le previsioni meteorologiche. Questi servizi sono parte integrante delle attività quotidiane e delle operazioni economiche.

Conoscere e studiare il campo magnetico terrestre inoltre, offre una finestra sul passato, fornendo agli scienziati indizi sulla formazione del Pianeta, sull’evoluzione del suo nucleo e sui cambiamenti storici del clima e dell’orientamento magnetico.

I dati che si ottengono dalle ricerche possono aiutare a prevedere il verificarsi di inversioni dei poli magnetici (Polo nord diventa Polo sud e viceversa) e il loro potenziale impatto sui sistemi globali.

Le attuali osservazioni dicono che, da anni, il campo magnetico si sta indebolimento, in particolare in regioni come il Sud Atlantico. Da quanto descritto sopra si capisce che se perde consistenza, diminuisce la protezione che offre alla Terra contro le radiazioni solari, mettendo a rischio non solo i satelliti e i sistemi tecnologici, ma potenzialmente l’atmosfera stessa. Ciò potrebbe avere conseguenze di vasta portata sul clima del pianeta, sui modelli meteorologici e sulla stabilità complessiva della biosfera.

Alla luce di questi fattori, si capisce perché la comunità scientifica globale stia intensificando gli sforzi per studiare il campo magnetico. Progetti come la missione Swarm dell’ESA sono in prima linea in questa ricerca, impiegando tecnologia satellitare avanzata per mappare le fluttuazioni del campo magnetico con un dettaglio senza precedenti.

L’ESA lanciò la missione Earth Explorer Swarm, un trio di satelliti identici progettati per studiare il campo magnetico terrestre, nel novembre del 2013 con lo scopo di definire il migliore tra i quadri possibili circa questa caratteristica della Terra. Negli ultimi dieci anni, questa missione ha trasformato la nostra comprensione dello scudo magnetico.

La costellazione dello Swarm, con due satelliti che volano in formazione ravvicinata e un terzo a un’altitudine diversa, è in grado di rilevare l’intero campo magnetico in un sol giorno, facilitando una prospettiva globale su come il campo magnetico cambia nel tempo.

«Dieci anni di dati di altissimo valore dello Swarm ci forniscono ora un quadro affidabile e globale di come sta cambiando il campo magnetico terrestre», ha affermato Chris Finlay, dell’università Tecnica della Danimarca. «Questo periodo di osservazione decennale è stato cruciale per analizzare le lente variazioni del campo magnetico, generate principalmente nel nucleo terrestre, nel corso di anni o decenni».

Il progetto “Swarm+ 4D Deep Earth Core” poi, un’iniziativa nell’ambito del programma Earth Observation Science for Society dell’ESA, ha svolto un ruolo importante nel far progredire la nostra conoscenza delle dinamiche centrali della Terra, perché, come è noto, il campo magnetico viene prodotto proprio dai movimenti che avvengono all’interno del nucleo terrestre. Il progetto ha sfruttato i dati di Swarm, insieme a simulazioni numeriche avanzate, per creare mappe dettagliate che illustrano la struttura globale e i cambiamenti graduali del campo magnetico.

Queste mappe tracciano il campo magnetico fino alla sorgente, nel nucleo esterno, dove il ferro liquido vorticoso e conduttivo lo genera attraverso il suo movimento. Ebbene una delle scoperte più significative fatte attraverso questa ricerca è stata una corrente di materiale del nucleo sotto lo Stretto di Bering, dove la velocità del flusso è notevolmente superiore alla media, in quanto si sposta a circa 10 chilometri all’anno, circa tre volte più velocemente dei tipici movimenti del nucleo.

Il progetto ha identificato anche processi più rapidi all’interno del nucleo, i quali causano onde del campo magnetico. Molti scienziati stanno utilizzando i dati di Swarm per comprendere meglio l’“Anomalia del Sud Atlantico”, un’area che si estende dall’Africa al Sud America, dove il campo magnetico terrestre si sta gradualmente indebolendo ad una velocità che sembrerebbe non avere spiegazioni. Questo strano comportamento lascia perplessi i geofisici e sta causando disturbi tecnici nei satelliti in orbita attorno alla Terra.

Va ricordato che negli ultimi 200 anni il campo magnetico ha perso in media a livello globale circa il 9 per cento della sua forza e tra l’Africa e il Sud America l’indebolimento è stato di molto superiore.

L’anomalia inoltre, si è espansa e si è spostata verso ovest ad una velocità di circa 20 chilometri all’anno. In particolare, dal 2015 al 2020, un secondo centro di minima intensità è apparso a sud-ovest dell’Africa, suggerendo la possibilità che l’anomalia del Sud Atlantico possa dividersi in due cellule distinte. Questa anomalia ha messo in discussione il tradizionale modello dipolare del campo magnetico terrestre, che è spesso rappresentato come una barra magnetica gigante inclinata di circa 11° rispetto all’asse di rotazione del pianeta.

L’emergere di queste complesse situazioni infatti, indicano che i meccanismi che generano il campo magnetico terrestre sono più complessi di quanto precedentemente compreso. Tra l’attuale indebolimento del campo magnetico ha portato a speculare su una potenziale imminente inversione geomagnetica, un fenomeno in cui i poli nord e sud magnetici della Terra si scambierebbero di posto.

I documenti storici rivelano che queste inversioni sono avvenute in modo intermittente, con una media di una volta ogni 250.000 anni. Data questa frequenza, poiché non si è lontani da un altro appuntamento di questo genere, un numero crescente di ricercatori sostiene che la Terra potrebbe avvicinarsi alla soglia per un’altra inversione. Ma questa è un’altra storia.

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