Sapevano tutto, ma non hanno fatto niente. Negli ultimi anni sono state molte le società accusate da giornali e ong di aver tenuto nascoste per decenni le loro conoscenze sugli effetti dell’attività petrolifera sul clima. È toccato ad Exxon Mobil, Bp, Shell, TotalEnergies: tutte accusate di non aver cambiato modello di business, di non aver invertito la rotta nonostante fossero consapevoli degli effetti nefasti sul clima causati dai combustibili fossili. Ora anche l’italiana Eni fa parte di questa lista.

A sostenerlo, in un rapporto che Domani ha potuto leggere in esclusiva per l’Italia, sono due associazioni, Greenpeace Italia e ReCommon. Sono le stesse ong che lo scorso 9 maggio, insieme a 12 cittadini, hanno avviato nei confronti del Cane a sei zampe la prima climate litigation italiana, una causa climatica contro la multinazionale controllata dallo stato.

È proprio per sostanziare le richieste contenute nella causa che le due ong hanno pubblicato il report, intitolato «Eni sapeva»: nell’atto di citazione, Greenpeace Italia e ReCommon chiedono infatti alla multinazionale un risarcimento «per i danni subiti e futuri, di natura patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui la compagnia avrebbe significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendo consapevole degli impatti sul clima delle proprie attività».

Dagli anni Settanta

Nel rapporto le due ong scrivono che il Cane a sei zampe è a conoscenza degli effetti delle proprie attività sul clima «almeno dagli anni Settanta». Un fatto «ricostruito grazie a ricerche svolte in biblioteche, archivi pubblici e privati, incluso quello della stessa Eni». Il primo documento citato è datato 1970.

«L’anidride carbonica presente nell’atmosfera, secondo un recente rapporto del Segretario dell’Onu, data l’accresciuta utilizzazione di olii combustibili minerali, è aumentata nell’ultimo secolo del 10 per cento in media nel mondo; verso il 2000 questo incremento potrebbe raggiungere il 25 per cento, con conseguenze “catastrofiche» sul clima». A riportare queste parole è uno studio realizzato dall’Isvet (Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progresso Tecnico) e presentato nel corso di un incontro tenutosi a Roma il 18 e il 19 giugno di quell’anno, alla presenza dell’allora vice presidente di Eni, Raffaele Girotti.

L’Isvet, spiegano Greenpeace e ReCommon, è un centro studi dell’Eni, a cui l’azienda aveva commissionato la realizzazione di una indagine sull’inquinamento atmosferico ed idrico in Italia.

I documenti

Ma non sarebbe questa l’unica prova. Il rapporto delle due ong cita anche la Prima relazione sulla situazione ambientale del paese: è uno studio del maggio 1973, realizzato per conto del governo di allora dalla Tecneco, società costituita due anni prima dalla stessa azienda italiana. Tra le varie frasi riportate per dimostrare la responsabilità di Eni ce n’è una, ad esempio, in cui il nesso tra gas serra e climate change sembra particolarmente chiaro.

A proposito dell’anidride carbonica, i ricercatori di Eni scrivono che «il relativo aumento nell’atmosfera è considerato potenziale causa di variazioni climatiche».

Cinque anni più tardi, è ancora uno studio di Tecneco a ribadire il concetto e ad ampliarlo. In un approfondimento intitolato Ambiente e fonti di energia esauribili o rinnovabili, i ricercatori scrivono: «Sono state formulate diverse ipotesi circa l’effetto sul clima delle emissioni provocate dai combustibili fossili. Su scala locale sono stati notati cambiamenti climatici anche notevoli (…). Analoghi cambiamenti climatici possono verificarsi su scala regionale per il continuo, crescente consumo di combustibili fossili, e ciò, può diventare un problema importante sul finire del secolo». Esattamente quello che si è verificato.

Un altro documento citato dalle due ong è dell’estate del 1988.

Si tratta di Ecos, rivista aziendale pubblicata all’epoca da Eni. In un articolo si legge: «In generale gli scienziati concordano su un “global warming”, cioè su un probabile aumento della temperatura dell’atmosfera. Sull’entità di tale aumento e sulle sue conseguenze in termini di variazioni del clima, i pareri sono ancora molto discordi. È opinione comune che sia molto importante “guadagnare tempo” in modo da affinare i complessi modelli di previsione e individuare le soluzioni più opportune. Guadagnare tempo significa limitare, per quanto possibile, l’incremento della emissione di CO2».

Una scelta che Eni non ha preso allora, dato che la società – fino al 1992 totalmente pubblica, oggi controllata dallo stato con una quota del 34 per cento – ha continuato ad aumentare l’estrazione di combustibili fossili e a promuoverne l’utilizzo. Questa è l’accusa principale che le due ong rivolgono alla multinazionale guidata da Claudio Descalzi, in Eni fin dal 1981: conoscere i fatti da oltre 50 anni, ma cercare di ribaltarli a proprio favore.

Il ruolo di Ipieca

Nel rapporto viene infatti sottolineata una circostanza: Eni fa parte di «un’organizzazione internazionale che, secondo un recente studio scientifico, durante gli anni Ottanta sarebbe diventata lo strumento utilizzato per coordinare una campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire la politica climatica internazionale».

Si tratta dell’International Petroleum Industry Environmental Conservation Association, meglio nota come Ipieca, fondata nel 1974 dalle maggiori compagnie petrolifere al mondo. L’accusa di Greenpeace e Recommon in questo caso si basa soprattutto sulle parole di Christophe Bonneuil, storico della scienza e direttore presso il più grande ente pubblico di ricerca francese, il Centre national de la recherche scientifique (Cnrs).

In un articolo, pubblicato nel novembre del 2021 sulla rivista scientifica Global Environmental Change, Bonneuil descrive quale fosse l’obiettivo dell’Ipieca: sottolineare le presunte incertezze della scienza climatica, il tutto con l’obiettivo di ritardare le azioni da intraprendere per invertire la rotta.

Le accuse

«Se ci troviamo oggi nel pieno di una crisi climatica che minaccia le vite di tutte e tutti noi, la responsabilità ricade principalmente su aziende come Eni, che hanno continuato per decenni a sfruttare le fonti fossili, ignorando gli allarmanti e crescenti avvertimenti provenienti dalla comunità scientifica globale», è la sintesi di Felice Moramarco, che ha coordinato la ricerca di Greenpeace Italia e ReCommon.

Come detto, proprio la consapevolezza dei danni provocati al clima, unita all’inazione protrattasi per decenni, costituisce una delle due principali argomentazioni della causa intentata dalle due ong nei confronti di Eni. L’altra accusa è quella di non aver rispetto finora i livelli di riduzione delle emissioni di gas climalteranti previsti dagli Accordi di Parigi.

Per questo le due associazioni chiedono che Eni, così come il ministero dell’Economia (azionista di maggioranza relativa), sia obbligata a rivedere la sua strategia industriale e a ridurre le emissioni del 45 per cento entro il 2030. Eni – che nel frattempo ha avviato nei confronti delle due ong un’istanza di mediazione, prodromo di una possibile contro-causa – una richiesta di commento ci ha fatto sapere che «renderà pubblici a tempo debito i rispettivi atti di causa e argomenti in modo che chiunque possa farsi una idea piena, corretta, accurata (e scevra da ideologie fuorvianti) delle rilevantissime problematiche e complessità associate, nonché della correttezza sia del comportamento della Società, sia della sue strategie di transizione energetica».

L’azienda ha però precisato che «seguendo la logica descritta dalle ong, priva di qualsiasi fondamento e conoscenza della storia industriale e tecnologica dei sistemi energetici, nonché dell’evoluzione dei sistemi economici e industriali e del mix energetico necessario al loro funzionamento, chiunque negli ultimi 50 anni avesse usufruito di energia o carburante di origine fossile avrebbe ignorato tali “allarmi” e sarebbe analogamente responsabile delle emissioni generate con il loro utilizzo».

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