Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questa è una nuova edizione di Areale, grazie per essere qui, come sempre. Cominciamo!

Il Dottor Male, il Super Bowl e General Motors

Questa settimana mi ha colpito uno degli spot mandati in onda durante il Super Bowl 2022, che lunedì 14 febbraio è stato vinto dai Los Angeles Rams contro i Cincinnati Bengals. Mi sembra di capire (non so davvero niente di football americano) che Cincinnati fosse l’underdog, quindi un po’ mi spiace, ma diciamo che la mia vita di tifoso, a qualunque livello, non è mai stata disseminata di gioie lungo il cammino, quindi va bene.

Sono invece interessanti gli spot mandati in onda al Super Bowl, soprattutto se considerati come una specie di termometro culturale della contemporaneità.

Nel 2019 c’è stato il primo spot vegano di sempre durante il Super Bowl, per esempio, trenta secondi per promuovere un panino con hamburger senza proteine animali, prodotto da Beyond Meat. Sembra poca cosa ma non lo è.

L’anno scorso General Motors aveva una pubblicità molto divertente che iniziava con Will Ferrell che spacca un mappamondo, indignato perché il dominio dell’auto elettrica è in mano ai norvegesi. «Norway!» E poi: «Let’s go America, battiamoli!»

Quest’anno General Motors, per lo stesso scopo (promuovere le sue auto elettriche e la sua reputazione) ha reclutato buona parte del cast di quel frammento di cultura pop troppo sottovalutato che è Austin Powers.

La pubblicità inizia con il Dottor Male che annuncia come la sua conquista di General Motors sia completa. Essendo il nuovo Ceo, gli vengono annunciate le iniziative di sostenibilità della compagnia, lui risponde: «Scusate, non sono più il Dottor Male? Sono il Dottor bene? Nessuno mi ha mandato la nota!».

E così gli viene annunciato che, ahia, il Dottor Male ormai è solo la seconda peggiore minaccia per il mondo, perché, insomma, la prima è il climate change. Divertente. 

General Motors programma di produrre solo veicoli a emissioni zero dal 2040, in passato però è stata nella prima linea del negazionismo e del dilazionismo. Non una vita fa, anche durante l’amministrazione Trump sostenne la sfida dell’allora presidente alla California contro gli standard più rigidi per le emissioni di auto e camion. Forse all’epoca Dottor Male guidava davvero GM. In ogni caso, bene, almeno è greenwashing di qualità. E il messaggio sulla coolness dell’auto elettrica è stato mandato a 100 milioni di spettatori. 

NO

Il termometro culturale Super Bowl ci racconta anche che comunicare la sostenibilità è ormai più che un trend, è un’ossessione. E vale tutto.

Lo spot della società di software Salesforce con Matthew McConaughey ci dice che non è più tempo di scappare nello spazio (capito Bezos? Capito Nolan?), ma è tempo di impegnarsi, «piantare nuovi alberi». Non mi sembrava un messaggio centratissimo, ma, appunto, il compito è posizionarsi, pur se con sconfinata ingenuità. 

Abbiamo visto anche la maionese Hellmann combattere lo spreco di cibo: non buttare il pane raffermo, puoi farci il formaggio alla griglia, dice l’ex campione NFL Jerod Mayo.

Addirittura la società di criptovalute Coinbase ha fatto uno spot al buio, con solo un QR Code su schermo, per farci dimenticare l’immenso consumo energetico di quel settore. Non so.

Il potenziale agricolo di Roma

Lo diciamo sempre, ma lo diremo ancora. Il consumo di suolo è una delle emergenze italiane dimenticate, ed è anche uno dei tanti temi sui quali il parlamento, a ogni legislatura, si impegna solennemente a intervenire, da decenni, salvo ammettere che no, nemmeno questa volta siamo riusciti a fare niente, magari la prossima.

Ne ho parlato con Davide Marino, che è docente di pianificazione ambientale all’Università del Molise ed è stato tra i promotori del Comitato che si è attivato da tempo per promuovere una food policy per il Comune di Roma. L

ha capitale, mi spiega Marino è una città paradossale. È il primo comune italiano per consumo di suolo: la superficie consumata è di 30mila ettari, 20mila volte Piazza del Popolo, il 91 per cento in modo irreversibile. Però è anche un grande comune agricolo, si dice spesso: il più grande comune agricolo europeo, con 61mila ettari di produzione, 2.656 aziende attive. E i due dati, mi ha spiegato, vanno visti in relazione, perché indicano una direzione: «Potenziare l’agricoltura dentro la città può essere un antidoto contro il consumo di suolo». 

Oggi l’agricoltura capitolina è «arretrata» e «di attesa», mi spiega, povera di investimenti, proprio perché spesso il proprietario è lì in attesa di un cambio di destinazione d’uso, aspettando il consumo di suolo, visto come una unica prospettiva di remunerazione della proprietà. E invertire questa tendenza, quindi rendere più produttive e redditizie le terre agricole di Roma, potrebbe essere un disincentivo a questi cambi d’uso e fermare l’onda di cemento e asfalto che ogni anno ricopre un po’ di più la città.

Oggi a Roma si producono soprattutto cereali, latte, formaggio, ma si potrebbe lavorare sul fresco, gli ortaggi, la frutta.

Contesto. A Roma durante la pandemia 140mila persone hanno chiesto aiuti alimentari, il suolo della città potrebbe soddisfare fino al 15 per cento di questo fabbisogno, con cibo locale, a km 0. Oltre ad avere un effetto positivo in termini di mitigazione delle isole di calore, assorbimento di CO2, riduzione delle polveri sottili.

La food policy di Roma potrebbe essere l’innesco di questi processi virtuosi. Il 23 febbraio si riunisce per la prima volta il Consiglio del cibo, un organismo creato dalla delibera che avviava tutto il processo e che risale all’aprile 2021, poi tutto si è fermato per la campagna elettorale e le elezioni amministrative.

Ora la macchina si è rimessa in moto, partiranno i tavoli di lavoro veri e propri, coordinati dall’assessora all’Ambiente Sabrina Alfonsi, che ha anche la delega per l’agricoltura. È una buona notizia, per una città complessa. Ve ne racconterò il seguito, se avete esperienze e punti di vista sulla Roma agricola (o su agricoltura in suoli urbani) fatemi sapere. 

C’entra poco, ma approfitto di questo spazio vegetale per segnalare una newsletter molto bella, Braccia rubate. Parla del nostro rapporto con le piante, ed è una delle mie letture settimanali preferite, ci si iscrive qui.

La storia del Wwf e degli Nft degli oranghi

Cosa pensate degli Nft?
È una storia lunga e complessa, ma, in brevissimo, la sigla sta per non fungible token, sono gli oggetti digitali «originali» che hanno stravolto il mercato dell’arte e della comunicazione. Cose digitali che si comprano o vendono per il loro valore percepito.

Come tutti i fenomeni davvero nuovi del mondo contemporaneo, è difficile pensarne qualcosa di specifico. Gli Nft esistono e ne dobbiamo prendere atto, ci vuole così tanto lavorio mentale anche solo per capirli, o visualizzarli, che averne pure un’opinione è difficile.

Parlo di Nft perché nelle ultime settimane c’è una storia che ha riguardato il Wwf e i non fungible token. Mi verrebbe da dire: una tipica storia di questi tempi assurdi, ha tutti gli ingredienti che servono: tecnologia digitale, aggressione sui social, crisi ecologica.
In pratica, il Wwf aveva lanciato una campagna per vendere Nft di animali minacciati e raccogliere fondi da destinare alla loro conservazione. Un’idea bellissima? Un’idea assurda? Probabilmente un’idea che funziona bene in una stanza in cui le persone tendono a darsi ragione a vicenda e poi atterra male nel mondo reale. E così i token dedicati a tredici tra le specie più in pericolo sono durati appena quarantotto ore, prima di essere travolti dalle critiche social. 

«Ci rendiamo conto che gli Nft sono un tema ancora molto dibattuto e che abbiamo tanto da imparare su questo nuovo mercato, per questo ora faremo le nostre valutazioni sull’esperimento e cercheremo nuove strade per coinvolgere i nostri sostenitori», ha scritto il Wwf per annunciare questo brusco passo indietro.

L’accusa dalla quale sono stati travolti sui social è che questi strumenti sono incredibilmente energivori, quindi non aveva senso raccogliere fondi per una crisi ecologica attraverso uno strumento che aggrava quella crisi. Non è una opinione infondata.

Ci sono criptovalute che emettono quanto paesi europei di media misura, Wwf collaborava con Polygon, che ha un sistema di blockchain più innovativo, che consuma meno energia dei network più noti. Non è bastato, era probabilmente una questione molto più legata al principio che all’effettivo conteggio delle emissioni di CO2 di questi Nft.
Dal punto di vista del mercato non era andata nemmeno così male: in due giorni erano stati venduti 174 di questi token per la natura, con una raccolta di 46mila dollari. Il più venduto era stato l’Nft di un orango di Tapanuli, per un costo di 2.700 dollari.

Wwf ha detto che rimborserà tutti quelli a cui ha venduto direttamente Nft ma non quelli acquistati su mercati secondari. (Strano pensare che esistano mercati secondari dove si comprano e vendono Nft di primati, ma il mondo è un posto interessante). 

Questo è un orango non Nft, ve lo regalo. Fatene buon uso. 

Lo sport di misurare il greenwashing fossile 

Misurare le proporzioni del greenwashing sta diventando un vero e proprio campo di ricerca accademico. Quasi uno sport. Una nuova ricerca, pubblicata su PLOS One, è andata diretta sulle grandi compagnie petrolifere globali: le statunitensi Chevron e ExxonMobil e le europee BP e Shell.

Da sole, queste tre aziende rappresentano il 10 per cento delle emissioni globali di gas serra dal 1965 a oggi. È questo il motivo, spiegano nell’introduzione i ricercatori, per cui non hanno inserito nell’analisi le altre tre major: Total, ConocoPhillips ed Eni. Volevano un confronto simmetrico tra Usa ed Europa e hanno scelto le principali quattro per emissioni.

ll metodo di analisi è semplice: prendere un arco di tempo congruo, in questo caso i dodici anni che vanno dal 2009 al 2020, analizzare gli impegni presi da queste compagnie nei loro report annuali e confrontarli con le strategie di business e soprattutto con la produzione nel mondo reale, l’unico piano che conta davvero. 

Sul livello del «discorso», come lo definiscono i ricercatori, è evidente che i grandi emettitori hanno recepito un cambio di sensibilità e di aspettative politiche (e degli investitori) nei loro confronti.

Per esempio, nel 2009 BP citava climate change 22 volte nei suoi documenti. Nel 2020 la stessa espressione appare per 326 volte. Questa attenzione linguistica però non ha visto gli investimenti in energia pulita e in una transizione reale aumentare come richiesto dalla crisi del clima, visto che per BP la quota green nell’anno delle 326 menzioni del climate change era solo del 2,3 per cento degli investimenti.

Probabilmente nessuno studio aveva misurato in modo così esatto, almeno a livello aziendale, il Bla bla bla di cui aveva parlato Greta Thunberg nel suo discorso inaugurale a Youth4Climate di Milano lo scorso autunno. 

Se dovessimo mettere queste quattro compagnie dentro una classifica di inazione climatica,  le americane risultano peggiori delle europee, anche se per tutte e quattro le strategie contraddicono il discorso e la produzione contraddice le pur deboli strategie di decarbonizzazione.

È interessante il confronto tra gli impegni strategici e la realtà: nel 2017 Shell diventa la prima major a impegnarsi a ridurre le emissioni lungo tutta la filiera dell’energia, seguita da BP nel 2019. Per dire, le americane non ci hanno pensato nemmeno, ma in ogni caso non risultano prove di azioni concrete da parte di Shell e BP nell’implementare questa pur virtuosa intenzione.

Insomma, sono diverse sfumature di greenwashing, ma sempre di quello si tratta. E se per BP l’investimento in energia pulita era del 2,3 per cento, per ExxonMobil è addirittura dello 0,2 per cento. Secondo lo studio è evidente che le aziende europee mostrano più attenzione alla decarbonizzazione rispetto a quelle americane, ma la traduzione nel mondo reale, lungo la filiera dalle parole alle azioni, è «sporadica e inconsistente». 

Il responso della ricerca è quindi netto: «Le analisi finanziarie rivelano che il loro business continua a essere fondato sulla dipendenza dalle fonti fossili di energia, affiancato da un insignificante e opaco approccio all’energia pulita. Dobbiamo quindi concludere che la transizione energetica non sta avvenendo, perché gli investimenti non corrispondono alle parole. E finché le azioni non seguiranno alle promesse, le accuse di greenwashing sono tutte da considerarsi ben fondate».

Lo stato del mare

Ci salutiamo, ma prima parliamo di un libro. Era entrato nei miei radar da un po’, con quel senso di desiderio irrevocabile che a volte ci ispirano i libri anomali, così strani che sembra assurdo che qualcuno ci abbia anche solo pensato. E invece.

Quel libro si intitola Lo stato del mare, lo ha scritto Tabitha Lasley e lo ha pubblicato NR, editore specializzato in libri insoliti e pieni di spirito del tempo. In ogni caso, Lo stato del mare parla di un mondo che ci riguarda, potete usarlo in controluce per rileggere il rapporto di cui sopra sul greenwashing, oppure la vostra vita, perché è allo stesso tempo un reportage sugli uomini che lavorano sulle piattaforme petrolifere nel mare del Nord e il memoir di una donna la cui vita crolla tutta insieme (per un furto e una rottura sentimentale) e allora decide di dedicarsi a questo reportage e nel frattempo si innamora di uno degli uomini che intervista, sposato, taciturno, bellissimo. 

Ed è un racconto a tratti cupo (c’è questa storia ricorrente di un lavoratore che si suicida buttandosi in mare da una piattaforma con le tasche piene di attrezzi), a tratti vitale, c’è qualcosa che in questi uomini attrae l’urbana e cosmopolita Lasley come la luce con una falena, vivono come soldati mercenari al fronte, sono pagati bene, vivono una scissione completa tra quello che fanno, quello che sono e le loro esistenze familiari, una specie di normalizzazione di uno stato da sindrome da stress post-traumatico.

C’è il racconto di un lavoro massacrante e alienante, che da decenni muove segretamente i gangli della nostra economia. Non è un libro animato da uno spirito ecologista, né ha alcuna velleità di raccontare la transizione energetica, ma è un libro utile da leggere per chi, a qualsiasi titolo, incrocia il mondo delle fonti fossili. C’è qualcosa di crepuscolare in come viene raccontata la petromascolinità, l’idea che all’estrazione di petrolio o gas siano associati valori virili, una specifica estetica maschile (quando giudicano una piattaforma, gli uomini vogliono innanzitutto sapere com’è la palestra), un modo di rapportarsi al mondo. Se lo leggete, fatemi sapere. 

Per questa settimana è tutto. Se avete consigli di lettura, critiche, spunti, o se volete mandarmi una cartolina (davvero) l’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece: lettori@editorialedomani.it

A presto!

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