Per chi è abituato a fare pulizie nella propria casa o in ufficio, sa quanto sia fastidiosa la polvere. La togli e dopo un giorno o due eccola ricoprire di nuovo mobili e libri. L’hanno chiamata “la copertina del tempo”, ma nessuno vorrebbe avere a che fare con quel libro. Eppure al di fuori delle nostre case, sui grandi spazi, la polvere assume un valore del tutto diverso perché possiede un ruolo rilevante per la “vita” del nostro pianeta, che va dalla regolazione del clima, al bilancio delle radiazioni, ai cicli dei nutrienti, fino alla formazione del suolo, senza dimenticare che, comunque, può essere dannosa alla qualità dell’aria e alla salute umana. Fino a tempi recenti però, studiare la polvere ha avuto dei grossi limiti soprattutto perché i modelli matematici utilizzati per simulare accuratamente le proprietà e le quantità di polvere in circolazione non erano, e ancora oggi non sono, sufficientemente evoluti.

La ricerca

Ma le ricerche non si sono fermate e un ultimo studio condotto da Adrian Chappell e dai suoi colleghi della Cardiff University ha cercato di delineare un quadro il più possibile realistico delle sorgenti e della diffusione delle polveri e, per quel che si conosce, dell’evoluzione della polvere sul nostro pianeta. Ciò ha permesso di giungere a conclusioni finora misconosciute. Si scopre, ad esempio, che le emissioni di polvere non sono costanti, ma cambiano stagionalmente tra gli emisferi, mettendo in discussione l’idea di lunga data secondo cui il nord Africa e il Medio Oriente sono le principali fonti di polvere globale. La ricerca di Chappell dimostra quasi il contrario, ossia che le emissioni di polvere si spostano stagionalmente e tra gli emisferi della Terra, ossia dai deserti dell’Asia orientale, del Medio Oriente fino al nord Africa, nonché dalle zone arbustive in Australia al nord America. I modelli del passato quindi, hanno fornito solo una parte della storia che spiega come la polvere arriva in atmosfera, in quanto ipotizzavano che essa arrivasse quasi tutta dalle regioni del nord Africa e del Medio Oriente. Sostenevano inoltre che nell’emisfero meridionale si verificavano pochissime emissioni di polvere. Ma questo contrasta con le osservazioni sul campo e con le esperienze delle persone in quelle regioni. Ora, utilizzando due tipi di dati satellitari, la nuova ricerca suggerisce anche che le emissioni di polvere in atmosfera durante le tempeste di polvere sono rare e localizzate. Si è ulteriormente capito poi, che il ciclo di emissione, trasporto e deposizione delle polveri ha effetti positivi e negativi sul nostro ambiente. I nutrienti presenti nella polvere depositata fertilizzano i nostri oceani e le foreste pluviali. Ma la polvere proveniente dai sedimenti erosi può anche danneggiare piante ed alberi ed interrompere la fotosintesi, mentre la polvere depositata sul ghiaccio aumenta la velocità con cui si fonde. Le variazioni nella composizione della polvere, come il tipo e il colore dei minerali, creano un complesso cocktail di particelle iniettate nell’atmosfera che interagisce con le nuvole per influenzare il modo in cui la luce solare viene riflessa o assorbita, regolando in definitiva la temperatura della Terra.

Lo studio ci fa capire dunque, quanto sia importante avere una comprensione accurata della provenienza delle emissioni di polvere, in quali quantità, come viene trasportata attraverso il pianeta e dove finisce e tutto ciò per meglio capire il comportamento della nostra atmosfera. Tra l’altro, sostengono i ricercatori, queste nuove idee sulla provenienza della polvere potrebbe richiedere una revisione delle ricostruzioni storiche che spiegano i cambiamenti climatici del passato e non ultimo potrebbero influenzare anche le future proiezioni climatiche e le modalità dei cicli del carbonio, dell’energia e dell’acqua perché la polvere interagisce con ciascuno di essi.

I cavi che trasportano la tua e-mail

Hai appena schiacciato invio e la tua mail è arrivata dall’altro capo del mondo. Come è possibile ciò? Sembra quasi un miracolo. È vero che stanno arrivando le costellazioni di satelliti che capteranno la mail e la invieranno ad altri satelliti finché quello posto sopra il tuo mittente non glielo invierà dal cielo. Ma a oggi sono ancora pochi coloro che possiedono in casa questa tecnologia. E dunque il “miracolo” per la maggior parte degli utenti di Internet e per la maggior parte delle mail inviate da cellulari o tablet si realizza grazie ad un’estesa rete invisibile di cavi sottomarini, che alimentano silenziosamente le comunicazioni globali istantanee, su cui le persone hanno imparato a fare affidamento. I cavi di comunicazione sottomarini, sono cavi in fibra ottica posati sul fondo dell’oceano e utilizzati per trasmettere dati tra i continenti. Questi cavi costituiscono la spina dorsale di internet globale e trasportano la maggior parte delle comunicazioni internazionali. Oltre il 95 per cento di tutti i dati che si muovono nel mondo passano attraverso questi cavi sottomarini, i quali sono in grado di trasmettere più terabit di dati al secondo, offrendo il metodo di trasferimento dati più veloce e affidabile oggi disponibile. Un terabit al secondo è abbastanza veloce da trasmettere in un istante circa una dozzina di film in 4K da due ore. Solo uno di questi cavi può gestire milioni di persone che guardano video o inviano messaggi contemporaneamente. Sui fondali degli oceani si trovano circa 485 cavi sottomarini per un totale di oltre un milione e 400mila chilometri. Tali cavi attraversano gli oceani Atlantico e Pacifico, nonché passaggi strategici come il Canale di Suez e aree isolate all’interno degli oceani.

Ogni cavo sottomarino contiene più fibre ottiche, sottili fili di vetro o plastica che utilizzano segnali luminosi per trasportare grandi quantità di dati su lunghe distanze. Le fibre sono raggruppate e racchiuse in strati protettivi progettati per resistere al duro ambiente sottomarino, compresa la pressione, l’usura e i potenziali danni derivanti dalle attività di pesca o dalle ancore delle navi. Si stima che ogni anno vengano tagliati dai 100 ai 150 cavi sottomarini, di solito in modo accidentale da attrezzature da pesca o ancore di navi. A ciò si aggiunge la preoccupazione di possibili sabotaggi. Questi cavi spesso si trovano in luoghi isolati ma pubblicamente noti, rendendoli facili bersagli per azioni ostili.

La vulnerabilità è stata evidenziata da guasti inspiegabili in più cavi al largo delle coste dell’Africa occidentale il 14 marzo 2024, che hanno portato a significative interruzioni di Internet che hanno colpito almeno 10 nazioni. Anche diversi guasti ai cavi nel Mar Baltico nel 2023 hanno sollevato sospetti di sabotaggio. Il corridoio strategico del Mar Rosso è emerso come un punto focale per le minacce legate ai cavi sottomarini. Un incidente degno di nota ha coinvolto l’attacco alla nave mercantile Rubymar da parte dei ribelli Houthi. La nave è stata costretta a gettare l’àncora punto dove passavano dei cavi sottomarini e ciò ha interrotto una parte significativa del traffico Internet tra Asia ed Europa, ma ha anche evidenziato la complessa interazione tra conflitti geopolitici e sicurezza dell’infrastruttura Internet globale.

La vita sugli esopianeti

Sono trascorsi quasi trent’anni da che Michael Mayor e Didider Queloz confermarono la scoperta del primo esopianeta orbitante attorno ad una stella simile al Sole, 51 Pegasi b. Da allora ne sono stati individuati migliaia e altrettanti sono in attesa di essere confermati negli elenchi ufficiali dei pianeti che ruotano attorno a stelle che non siano il nostro Sole. Di fronte ad una tale mole di scoperte più di una volta gli scienziati si sono posti la domanda: «Ma tra questi corpi ne esiste almeno uno che sia il più simile alla Terra, tale da poter ospitare la vita intelligente?». Le risposte sono state numerose, ma non sempre certe. È per questo che Balazs Bradak dell’università di Kobe in Giappone ha voluto, con un suo studio, mettere un punto fermo. Per dare una risposta alla domanda lo scienziato è partito da alcuni elementi fondamentali. Spiega Bradak che «qualsiasi pianeta extrasolare in grado di ospitare la vita deve trovarsi nella zona abitabile della sua stella madre, ossia nella fascia dove l’acqua possa scorrere liquida sulla superficie o almeno in prossimità di essa». Questo elemento, da solo, restringe drasticamente il campo potenziale dei candidati planetari. Per semplicità, Bradák ha eliminato anche i pianeti definiti “sub-Nettuniani” come potenziale classe planetaria. Sono pianeti, questi, troppo voluminosi per immaginare l’esistenza di una vita simile alla nostra. Ma c’è un altro fattore in gioco: l’età dei pianeti. «Sappiamo», continua Bradak, «che ci sono voluti circa 4,5 miliardi di anni perché la vita sulla Terra si evolvesse al punto da essere evoluta come lo è oggi, al punto da poter, teoricamente, inviare oggetti verso altri sistemi stellari, come ha fatto l’umanità con il lancio delle sonde Voyager. Questo fa ipotizzare che anche i pianeti extrasolari che abbiano sviluppato una civiltà tecnologicamente avanzata devono vivere su un pianeta che abbia almeno l’età della Terra, se non superiore». Dopo aver definito i parametri entro cui lavorare alla ricerca di pianeti con possibile vita intelligente, Bradak si è rivolto all’Archivio dei Pianeti Extrasolari della Nasa, che attualmente contiene 5.271 pianeti extrasolari riconosciuti senza ombra di dubbio. Di questi, solo sette soddisfano i criteri di posizionamento, età, dimensione e zona abitabile.

In altre parole, secondo la nostra attuale conoscenza sugli esopianeti e di come si è evoluta la vita, solo pochi pianeti potrebbero avere una civiltà simile o superiore per tecnologia, alla nostra. Spicca un pianeta in particolare: Kepler-452 b, che ruota attorno ad una stella simile alla nostra e su un’orbita simile. Quel sistema si trova a soli 1.400 anni luce di distanza dalla Terra, relativamente vicino a noi per gli standard astronomici. Ciò è di grande importanza perché risulta essere un punto focale vicino a noi, interessante per indagini approfondite su un pianeta potenzialmente abitabile, compresa la valutazione dell’atmosfera, che più di ogni altra cosa può dirci l’abitabilità di un corpo celeste.

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