Era il 16 giugno del 2015, la Juventus aveva da poco vinto il quarto dei suoi nove scudetti consecutivi, il presidente del Consiglio era Matteo Renzi e in atmosfera c’erano 401 parti per milione di CO2. Quel giorno era stata approvata la prima strategia italiana sul clima. Tra le altre cose, prevedeva che il nostro paese si dotasse a breve di un Piano di adattamento.

A inizio anno, dopo un viaggio non breve, il piano è stato finalmente approvato. Per chi cercasse una misura del disinteresse trasversale della politica italiana rispetto al clima: ci sono voluti quasi nove anni e sei governi diversi, di ogni colore politico, per arrivarci. È vero, sono stati anni pieni (pandemie, guerre), ma anche anni in cui la crisi climatica ha colpito duramente l’Italia: le alluvioni di Marche, Ischia, Romagna e Toscana, l’ondata di calore da 18mila morti del 2022, le crisi di incendi del 2018 e del 2021, la tempesta Vaia. Il varo del piano va quindi celebrato, ed è un merito del governo e del ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin aver colmato questo vuoto (l’85 per cento dei paesi del mondo ne ha uno), ma i motivi di sollievo finiscono qui. Il piano di adattamento finalmente c’è, ma è vago sulla parte più importante, quella delle azioni concrete da applicare, è privo di risorse aggiuntive, non ha indicazioni sui costi delle misure, non ha una governance chiara, né una struttura di controllo né indicatori per misurare i progressi. Più che un piano operativo, è una raccolta di buone intenzioni.

«Averne uno è un piccolo passo in avanti, ma il tempo dei piccoli passi ormai è finito», spiega Domenico Gaudioso, che da ex ricercatore di Ispra (ora in pensione) aveva contribuito ai primi passi della stesura. «Le misure di intervento sono citate ma non descritte, non è chiaro cosa sia di competenza dello Stato e cosa degli enti locali, né chi debba monitorare cosa, non si capisce come legare il monitoraggio all’attuazione». Insomma, un caos, che difficilmente renderà l’Italia più sicura quando arriveranno le prossime alluvioni.

Tutte cose che sapevamo

Il Piano è lungo e pieno di informazioni, il problema è che la maggior parte le avevamo già. Ci sono centinaia di pagine su leggi, regole e accordi internazionali sul clima, vulnerabilità e impatti, il quadro climatico internazionale, quello locale. Da un punto di vista scientifico è solidissimo, scritto con il meglio delle nostre istituzioni di ricerca. Se non altro spazza via il negazionismo con il quale maggioranza e governo avevano più volte dimostrato di flirtare.

Oggi è quindi il governo stesso ad ammettere che la mortalità per ondate di calore rischia di aumentare tra l’86 e il 137 per cento, che l’impatto sul Pil delle ondate di calore potrebbe essere del 2 per cento, che le vittime di eventi climatici estremi potrebbero aumentare fino a 60 volte entro fine secolo, portando alluvioni e simili a essere la prima causa di morte per rischio ambientale in Italia, superando l’inquinamento atmosferico. Inoltre, è sempre il governo a scrivere che i posti di lavoro persi nei prossimi decenni per l’inazione climatica potrebbero essere 410mila. Come adattarci ed evitare tutto questo sarebbe lo scopo del piano, ma solo un quinto del testo se ne occupa: come calcolato da un team di esperti in un’analisi pubblicata su Scienza in Rete, l’82 per cento del testo ci dice cose che sapevamo già.

È la parte politica a mancare, cioè cosa fare, come farlo, con quali risorse. La parte più importante, quella per cui il piano esiste, è l’appendice IV, il cosiddetto «Database delle azioni». Sono le 361 misure che il ministero elenca come opzioni di adattamento per il nostro paese. Sono trasversali a tutti gli impatti della crisi: difesa del suolo e della costa, energia, agricoltura, foreste, salute, turismo. Il primo problema è la colonna dei costi relativi a ogni azione: per chi dovrà applicare il piano, è fondamentale conoscerli e capire quante risorse destinare a ogni misura. Solo 5 su 361 (lo 1,3 per cento) hanno un costo puntualmente indicato, per una cinquantina si rimanda ad altri documenti; per tutti gli altri, oltre trecento, c’è una trafila di spazi vuoti, «non disponibile», «non si hanno informazioni in materia», «da valutare», «dipende». Questa vaghezza fa il paio con l’assenza di investimenti del governo nella legge di Bilancio.

I punti deboli

«Questa è una delle mancanze più gravi del piano», spiega Giorgio Vacchiano, scienziato forestale dell’Università di Milano e membro del comitato scientifico del progetto di divulgazione Climate Media Center. «L’adattamento ai cambiamenti climatici è una cosa che si fa localmente. Ma un amministratore ha risorse limitate per agire, quindi deve scegliere cosa fare. Un piano ben fatto per ogni misura indicherebbe non solo quanto costa, ma anche quanto costa non farla, e quali benefici socio-economici porta farla. Tutto questo non c’è, così manca ogni collegamento tra il piano nazionale e il locale».

Sembra più un manuale accademico che un documento di indirizzo del governo. Infine, centinaia tra le azioni proposte sono «soft», cioè inviti alla divulgazione, alla formazione, alla consapevolezza delle buone pratiche, «attraverso meeting, seminari, materiale stampato e campagne sociali». Solo il 24 per cento sono azioni «grey» o «green», cioè creazione o miglioramento di nuove infrastrutture o soluzioni basate sulla natura (queste ultime quasi tutte in ambito forestale). L’altra debolezza del piano è che mancano indicatori precisi per misurare i progressi dell’adattamento, linee guida nazionali che permettano di coordinare il lavoro sui territori. Gli esempi li fa ancora Vacchiano .«Che percentuale di rete idrica deve diminuire le perdite e in che tempi? Quanti chilometri di coste devono avere azioni contro l’ingresso del cuneo salino? Quanti ettari di foreste devono avere piani anti incendio?»

Un elenco di buone pratiche senza indicatori non permette di dare premi, agevolazioni o disincentivi ad amministrazioni locali o aziende per innescare un cambiamento su un territorio che subirà sempre di più gli effetti della crisi. È per questo che il piano ha lasciato perplessi sia gli ambientalisti che gli scienziati.

È un testo che lascia tutto come prima: un paese fragile, pericoloso e colpito duro dal clima, senza un vero piano di policy per mettersi al riparo, ma solo con una lista di consigli.

La vita quotidiana

Una sintesi la fa Enrico Giovannini, ex ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile del governo Draghi e direttore scientifico dell’Asvis, Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. «Noi facciamo documenti meravigliosi che però restano sulla carta e non sono in grado di entrare nelle scelte quotidiane delle amministrazioni. Il lavoro da fare è tantissimo: c’è da mettere in sicurezza gli aeroporti, le ferrovie, le autostrade, ogni gestore deve poter introiettare questi elementi». Invece si trova di fronte un testo di fatto inutilizzabile, con scarsi indicatori di impatto, senza risorse, senza monitoraggi. Non a caso, diverse amministrazioni locali avevano smesso di aspettarlo e hanno iniziato a fare da sé.

«L’autonomia differenziata per le regioni rischia solo di aumentare il disordine, soprattutto in assenza di una legge quadro sul clima», conclude Giovannini. Siamo l’unico grande paese europeo a non averne una. Come strumento principale di governance, il piano prevede anche l’istituzione di un Osservatorio nazionale per l’adattamento, un tavolo di confronto per riempire i buchi: decidere e aggiornare le priorità, pianificare e attuare le azioni. Dovrebbe riunirsi a tre mesi dalla pubblicazione del piano. Entro 12 dall’inizio dei lavori dovrebbe iniziare a supervisionare la messa a terra delle 361 azioni, trovare fonti di finanziamento, fare monitoraggio e reporting. Vuol dire ancora quasi un anno e mezzo, per vedere la prima applicazione di quel piano concepito nel 2015.

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