È il Sole la nostra fonte di energia. È il Sole che ha dato vita alle sostanze organiche che poi sono diventate oli o carbone. È il Sole che dà energia alle celle fotovoltaiche. È il Sole che produce variazioni atmosferiche da cui dipende l’energia eolica ed è il Sole che ha permesso alla Terra di formarsi e di contenere energia così da sfruttarla come energia geotermica o di estrarre minerali da usare come energia nucleare. Ma tutte queste fonti di energia hanno dei limiti nel loro sfruttamento: possono inquinare, possono avere un impatto ambientale e non ultimo terminare. C’è invece una fonte di energia che è davvero pulita e per quanto riguarda l’umanità, infinita nel tempo: è il Sole stesso.

Nella fantascienza

L’idea di raccogliere e trasmettere l’energia che il Sole emette direttamente dallo spazio ad una Terra assetata di energia è stata a lungo studiata. Il concetto di base venne proposto per la prima volta più di 80 anni fa in racconti da fantascienza, come nel racconto di Isaac Asimov del 1941, intitolato Reason apparso sulla rivista Astounding Science Fiction.

Asimov aveva concepito una stazione di raccolta dell’energia solare nello spazio che instradava i raggi energetici verso ricevitori posti sulla Terra, così come su Marte. Un concetto non così difficile a cui pensare, ma ritenuto fantascientifico anche solo pochi decenni or sono per le strutture necessarie a realizzar ciò. Ma venendo ai nostri giorni, molte cose sono cambiate e la tecnologia a disposizione permette di affermare che siamo vicini a trasformare la fantascienza in realtà, anzi l’abbiamo già fatto.

Un progetto all’avanguardia

Facciamo allora, il punto della situazione per verificare quanto ancora lontano siamo dalla fantascienza di Asimov. Lo Space Solar Power Project (Sspp) del Caltech è forse il punto di svolta per questa tecnologia. È trascorso poco più di un anno da quando un sistema dimostrativo venne lanciato in orbita terrestre per un test. Una volta in orbita, la navicella spaziale SSPD-1 ha provato un trio di innovazioni tecnologiche che dovevano far capire se davvero la metodologia può avere un futuro vicino a noi. A bordo vi era materiale innovativo per vari tipi di esperimenti e ricerche. In aggiunta vi erano 32 diversi tipi di celle fotovoltaiche per valutare come resistono al duro ambiente spaziale. E poi un sistema di microonde per provare il trasferimento di energia su due diversi ricevitori per dimostrare la trasmissione di energia senza fili a distanza nello spazio. In un articolo apparso su Space.com, Ali Hajimiri, co-direttore del Caltech Space-Based Solar Power Project spiega: «Molte cose hanno funzionato bene e le cose che hanno funzionato al meglio le abbiamo spinte finché non hanno smesso di funzionare. Ma va anche detto che abbiamo avuto vari intoppi durante gli esperimenti, ma il team ha sempre risolto i problemi. Anche nel trasferimento di energia wireless, abbiamo avuto ogni tipo di situazione. Alla fine poi, abbiamo messo a dura prova il sistema, al punto in cui abbiamo volutamente cercato di causare danni».

Al culmine della missione dell’SSPD-1 vi è stato un collegamento tra gli strumenti in orbita terrestre e il tetto del Gordon and Betty Moore Laboratory of Engineering del Caltech. Per 90 secondi, l’hardware chiamato MAPLE della navicella spaziale ha trasmesso sulla Terra l’energia che è stata raccolta nello spazio. Va subito sottolineato comunque che il livello di energia ricevuta sul tetto era estremamente ridotto.

«Si trattava soprattutto di rilevamento dell’energia», ha detto Hajimiri, «ma la vera novità stava nel fatto che si riceveva energia dallo spazio, un piccolo passo verso lo sfruttamento dell’energia solare spaziale». L’SSPD-1 verrà presto dismesso e lasciata precipitare nell’atmosfera terrestre dove brucerà. Ora i lavori si stanno rivolgendo verso la soluzione dei problemi incontrati e nello sviluppo di strutture più leggere.

«Ci sono ancora molte “incognite” che devono essere capite», ha detto Hajimiri. Le incognite vanno dai materiali da utilizzare fino alla sincronizzazione tra strumenti che inviano e strumenti che ricevono l’energia solare, ma Hajimiri sostiene che si è sulla buona strada. «La sfida più grande», sostiene il ricercatore, «è sensibilizzare l’opinione pubblica e rendere evidente che ciò che abbiamo fatto è reale e concreto».

Non esiste una tecnologia per produrre energia che sia al contempo pulita, stabile e continua all’infinito diversa dall’energia solare raccolta nello spazio, sostiene Virtus Solis Technologies Inc. che ha sede a Troy, Michigan. John Bucknell è l’amministratore delegato e fondatore del gruppo, il quale spiega: «Quelli di noi che hanno confrontato tutte le tecnologie per la produzione di energia praticabili sanno che una soluzione concreta deve essere a bassa complessità, a basso utilizzo di minerali o fonti terrestri in genere, producibile in grandi quantità e in grado di fornire energia elettrica stabile, sicura e a basso costo, come hanno fatto i combustibili fossili negli ultimi 200 anni».

E il sistema della sua società rispetta questi canoni: il primo obiettivo è una costellazione di 16 strutture poste nello spazio che eroghino ciascuna 20 gigawatt di potenza per un totale di 320 gigawatt da consegnare ovunque sul pianeta, sistemi che in ogni caso possono diventare molto più grandi nel tempo. «Con una crescita della capacità del 50 per cento su base annua, tali sistemi potrebbero arrivare a 100 terawatt di potenza in 30 anni e soddisfare le esigenze di un pianeta con 10 miliardi di abitanti», ha affermato Bucknell.

Un leader nel sostenere lo sfruttamento dell’energia solare dallo spazio è John Mankins di Artemis Innovation Management Solutions a Santa Maria, California.

«Le basi per la trasmissione di energia», spiega su Space.com, «sono già state gettate più e più volte da esperimenti sul campo. Per me la metodologia è stata dimostrata decenni fa. Ora il vero problema è come realizzare sistemi davvero grandi, ma non vedo ostacoli insormontabili di fronte ai progetti. Anche il problema circa i costi di lancio del materiale è anch’esso superato visto i lanciatori a basso costo come il Falcon 9 di SpaceX o quelli che presto entreranno in attività, come il New Glenn di Blue Origin». Insomma la strada sembrerebbe davvero aperta.

Il misterioso strato D’’

Nel profondo della Terra è presente un “misterioso” strato chiamato dai geologi strato D’’. Si trova a circa 3.000 chilometri sotto la superficie terrestre, irraggiungibile dall’uomo (il pozzo più profondo ha toccato i 12 chilometri di profondità), e fa da coperta al nucleo terrestre liquido proprio al di sotto del mantello. Questo strato D’’ però, non forma una sfera perfetta, ma è sorprendentemente irregolare. Il suo spessore varia notevolmente da luogo a luogo, con alcune regioni dove è addirittura inesistente. Queste strane variazioni hanno catturato da sempre, dopo essere stato scoperto, l’attenzione dei geofisici, in quanto risulta essere misteriosa la sua formazione.

Ora un nuovo studio condotto da Qingyang Hu, del Centro per la ricerca avanzata sulla Scienza e la Tecnologia ad alta pressione e da Jie Deng dell’Università di Princeton suggerisce che lo strato D’’ potrebbe aver avuto origine nei “primi giorni” della storia della Terra. La loro ipotesi parte dall’impatto gigante, che vuole che un oggetto delle dimensioni di Marte si schiantò sulla proto-Terra, creando un oceano di magma su tutto il pianeta. Si ritiene che lo strato D’’ possa essere una parte di quell’oggetto o al più una miscela di materiali provenienti in parte da Theia (così è chiamato quell’enorme asteroide) e in parte dalla Terra primordiale e dunque possiede una composizione unica.

Deng sottolinea come numerosi studi abbiano messo in luce una grande quantità di acqua che doveva essere presente nell’oceano di magma primordiale. L’origine esatta di quest’acqua rimane oggetto di dibattito (ci sono varie ipotesi, tra cui la formazione attraverso reazioni tra il gas della nebulosa che diede origine al sistema solare e il magma, o il rilascio diretto da parte di asteroidi), sta di fatto che «l’opinione prevalente, spiega Deng, «suggerisce che l’acqua si sarebbe concentrata verso il fondo dell’oceano di magma mentre si raffreddava. Negli stadi finali, il magma più vicino al nucleo avrebbe potuto contenere volumi d’acqua paragonabili all’attuale volume degli oceani della Terra».

Condizioni estreme di pressione e temperatura che vi erano all’interno e soprattutto sul fondo dell’oceano di magma avrebbero creato un ambiente chimico unico, favorendo reazioni inaspettate tra quell’acqua e vari minerali.

Spiega Qingyang Hu: «La nostra ricerca suggerisce che quell’oceano di magma idrato (ricco d’acqua) abbia favorito la formazione di una fase ricca di ferro chiamata perossido di ferro-magnesio. Questo perossido (Fe, Mg)O2, secondo i nostri calcoli, si sarebbe accumulato sul fondo dell’oceano di magma dando vita a strati di spessore compreso tra diversi chilometri e decine di chilometri». Il perossido andò a depositarsi proprio al confine tra mantello e nucleo insieme ad altri minerali, tra i quali silicati e ossidi poveri di ferro.

Il perossido a predominanza di ferro possiede basse velocità sismiche e un’elevata conduttività elettrica, il che lo rende un potenziale candidato per spiegare le caratteristiche geofisiche uniche dello strato D’’. «I nostri risultati suggeriscono che il perossido ricco di ferro abbia svolto un ruolo cruciale nel modellare le strutture dello strato D’’ ad andamento eterogeneo», ha affermato Qingyang, «in quanto la sua presenza crea una forte densità che diminuisce dove lo strato D” è meno potente in spessore».

La sua presenza dunque, impedisce al mantello di creare uno strato omogeneo al contatto con il nucleo esterno, ma lo strato D” crea vere e proprie catene montuose e vallate al confine tra nucleo e mantello.

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