All’inizio di quest’anno, la Grande Barriera Corallina australiana si è “riscaldata” a temperatura mai registrata negli ultimi quattro secoli. Lo studio dei dati registrati, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature ed il fenomeno è attribuito dagli scienziati al cambiamento climatico indotto dall’uomo. Il riscaldamento ha causato come conseguenza uno sbiancamento della barriera stessa, lunga oltre 2300 chilometri, come mai registrato dall’uomo durante l’ultimo periodo storico. Spiega Ben Henley, climatologo presso l’università di Melbourne in Australia e autore principale dello studio: «Ora abbiamo una registrazione a lungo termine che mostra quanto siano estremi e ripetuti questi eventi recenti». Henley e i suoi colleghi hanno determinato nel corso del tempo le temperature oceaniche della Grande Barriera Corallina perforando e analizzando chimicamente i nuclei di scheletro di corallo in 22 punti diversi lungo lo sviluppo della grande costruzione.

Una tendenza antica

I coralli solitamente “sbiancano” quando sono stressati dalle alte temperature: si espellono infatti, le alghe colorate che vivono al loro interno, le quali forniscono la loro energia tramite la fotosintesi. A seconda della gravità e della durata dell’evento di sbiancamento, i coralli possono riprendersi o morire e ciò conseguentemente minaccia gli ecosistemi ricchi di biodiversità presenti all’interno della Barriera, gli habitat per la pesca, le ricadute turistiche e la protezione delle coste dalle tempeste.

La tendenza scoperta nell’ultimo studio è chiara: intorno all’inizio del XIX secolo, dopo l’inizio dell’industrializzazione, le temperature oceaniche della barriera corallina hanno iniziato a salire costantemente. E negli ultimi due decenni, le temperature sono aumentate al punto che cinque dei sei anni più caldi degli ultimi 407 anni di registrazioni oceaniche, si sono verificate dal 2016 e hanno causato importanti eventi di sbiancamento. Lo studio arriva quasi nello stesso momento in cui l’Australian Institute of Marine Science (Aims) di Townsville pubblica il suo ultimo rapporto sullo stato della Grande Barriera Corallina, che include dati provenienti da indagini aeree e subacquee sui coralli.

L’analisi dei racconti include, per fortuna, anche alcune notizie incoraggianti: molte aree della barriera corallina si sono riprese dal 2016, quando un importante evento di sbiancamento aveva portato ad una diffusa mortalità dei coralli. Ma i ricercatori avvertono che gli impatti dell’evento di sbiancamento di massa di quest’anno non sono presenti nel rapporto dell’Aims e che il lavoro di tale istituto potrebbe non dare un quadro completo della reale mortalità dei coralli che avverrà nei prossimi sei-nove mesi. Tra l’altro lo studio dell’Aims potrebbe far sì, secondo alcuni ricercatori dell’ultimo studio pubblicato su Nature, che l’Unesco, l’organizzazione culturale delle Nazioni unite decida di non includere la Grande Barriera Corallina nell’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità in pericolo. E questo sarebbe un grave errore. «In realtà, il 30-50 per cento delle barriere coralline esaminate da Henley e dal suo gruppo di lavoro sono ancora ad alto rischio», afferma Neal Cantin, un biologo dei coralli presso Aims, che ha contribuito alle indagini, il quale prosegue: «I coralli possono restare sbiancati per un po’ di tempo e sopravvivere oppure morire e quindi non conosceremo l’impatto completo finché non avremo completato il periodo durante il quale si potrà avere o meno il recupero di quest’ultima onda di caldo. Ma se continuiamo ad vedere questo livello di riscaldamento accelerato e sbiancamento sempre più frequenti, il processo di recupero si degraderà piuttosto rapidamente».

Lo studio

L’ultimo studio di Nature si concentra sulle temperature annuali da gennaio a marzo, quando le temperature oceaniche della barriera corallina sono al loro picco. Quest’anno, secondo le nuove registrazioni ottenute dagli scheletri dei corallo, la temperatura superficiale del mar dei Coralli durante tale periodo ha raggiunto una media di 1,73 °C in più rispetto alla media del 1618-1900. Henley ei suoi colleghi hanno modellato il clima della Terra sia con, sia senza emissioni storiche di gas serra e determinato hanno che la tendenza al riscaldamento degli oceani nel loro record non sarebbe stata possibile senza l’attività umana.

I risultati dello studio sono preoccupanti, «ma non sorprendenti», afferma Robert Streit, un ecologo della barriera corallina presso l’università di Melbourne, se si tiene presente quel che sta avvenendo sul pianeta. Il governo australiano ha predisposto un piano per investire miliardi di dollari in sforzi per preservare la barriera corallina e aiutare i coralli ad adattarsi alle acque più calde, ma Streit si chiede se questo sarà sufficiente per restare al passo con la distruzione causata dal riscaldamento globale e dice: «Forse stiamo creando false speranze che la scienza possa risolvere questi problemi». Henley afferma che è chiaro che la Barriera Corallina non sopravviverà nella sua forma attuale se le temperature continueranno a salire e questo solleva domande cruciali su cosa rimarrà nei decenni a venire.

È giusto ricordare che la Grande Barriera Corallina è il più grande sistema corallino del mondo in quanto occupa una superficie di circa 345mila chilometri quadrati, una superficie molto simile a quella della penisola italiana. Ospita oltre 1.500 specie di pesci, 400 tipi di corallo, oltre 30 specie di balene e delfini e sei delle sette specie di tartarughe marine viventi al mondo. Nessun altro patrimonio dell’umanità contiene una storia di biodiversità. Perderlo sarebbe un danno irreversibile.

L’asteroide e i dinosauri

Circa 66 milioni di anni fa, arrivò dalle profondità del sistema solare un asteroide di 10 chilometri di diametro che impattando con la Terra, in men che non si dica, eliminò dalla faccia del nostro pianeta circa il 60 per cento delle specie viventi, comprese moltissime specie di dinosauri. Ma da dove partì per questa macchina della morte? Ora gli scienziati avrebbero individuato l’area di origine e la composizione di quell’oggetto: si tratterebbe di un raro asteroide carbonaceo proveniente da oltre l’orbita di Giove. La scoperta aiuta a risolvere dibattiti di lunga data sulla natura dell’impatto di Chicxulub (l’area messicana dove precipitò quel gigantesco masso spaziale), rimodellando la nostra comprensione della storia della Terra.

La Terra ha vissuto diversi eventi di estinzione di massa e l’evento più recente si è verificato al confine tra il periodo geologico chiamato Cretaceo e il Paleogene (66 milioni di anni fa), che i geologi chiamano “confine K-Pg”, il quale causò la perdita di ben più della metà delle specie del pianeta, inclusi i dinosauri non aviari. E si ritiene che l’impatto di Chicxulub, un enorme asteroide che entrò in collisione con la Terra in quello che oggi è il Golfo del Messico, abbia svolto un ruolo chiave in questo evento di estinzione. Le prove includono alti livelli di elementi del gruppo del platino (definito “gruppo PGE”) come iridio, rutenio, osmio, rodio, platino e palladio negli strati al confine K-Pg, che sono rari sulla Terra, ma comuni nei meteoriti.

Questi elevati livelli di PGE sono stati trovati a livello globale, suggerendo che l’impatto ha scarso materiale in tutto il mondo. Mentre alcuni propongono un’attività vulcanica su larga scala che si verificò nella provincia ignea del Deccan, come fonte alternativa alla crisi del fine Triassico, i rapporti specifici PGE si allineano maggiormente con gli impatti di asteroidi che con l’attività vulcanica. Tuttavia, molto sulla natura dell’oggetto che impatta a Chicxulub, la sua composizione e l’origine extraterrestre, è ancora poco compreso.

Per rispondere ad alcune delle domande in sospeso, Mario Fischer-Gödde e colleghi hanno realizzato una ricerca molto specifica: hanno studiato cioè, gli isotopi di rutenio (Ru) in campioni prelevati dal confine K-Pg. Per fare un confronto, hanno anche analizzato campioni di altri cinque impatti di asteroidi degli ultimi 541 milioni di anni, campioni di antichi strati di sferule correlati all’impatto dell’era archeana (3,5-3,2 miliardi di anni fa) e li hanno confrontati con campioni di alcuni meteoriti carbonacei. Ficher-Gödde hanno scoperto che le firme degli isotopi Ru nei campioni del confine K-Pg erano uniformi e corrispondevano da vicino a quelle delle condriti carbonacee (CC), che provengono da asteroidi che si formarono nel Sistema Solare esterno.

I dati escludono anche che possa essere stata una cometa di grandi dimensioni ad impattare con la Terra. Anche i campioni archeani antichi suggeriscono impattatori con una composizione simile a quella delle condriti carboniose. Le condriti carbonacee sono tra le più interessanti meteoriti dal punto di vista scientifico. Sono infatti costituite da materiale che risulta essere tra i più antichi ed incontaminati che si conoscono.

La loro composizione chimica infatti, assomiglia molto da vicino a quella della nebulosa solare. In alcuni campioni è stata trovata acqua in percentuale che vanno dal 3 al 22 per cento o minerali che testimoniano la sua presenza nel più lontano passato. L’elevato contenuto di carbonio e di sostanze organiche lascia supporre che alcuni meteoriti nel corso del tempo non abbiano mai superato i 50°C di temperatura. Le condriti carbonacee sono anche rare, in quanto rappresentano circa il 3 per cento di tutte le meteoriti note. Esistono vari tipi diversi di condriti carbonacee, le cui differenze si spiegano immaginando la loro origine da vari corpi celesti in regioni diverse del Sistema Solare, oggetti che furono anche sottoposti a evoluzioni termiche e chimiche differenti.

© Riproduzione riservata