Vi siete mai chiesti cosa succederebbe se pagassimo il cibo per quanto davvero vale? Cioè, se all’interno del valore di questo o quel prodotto, venissero contabilizzati tutti, ma proprio tutti i costi, tutte le esternalità negative?

Un rapporto della Nazioni unite sul “prezzo reale del cibo” sostiene che, per assicurare sistemi alimentari sostenibili, è necessario ridurre drasticamente gli enormi costi ambientali e sanitari del cibo ma che, allo stesso tempo, bisogna produrre cibo (sano e sostenibile) accessibile a tutti.

Quello espresso dalle Nazioni unite è un concetto corretto e condivisibile  ma presenta due ostacoli enormi. Il primo è che un cibo salutare, di qualità, sostenibile, spesso costa troppo e può permetterselo solo chi sta bene economicamente. Il secondo è che uno dei problemi principali delle catene alimentari è che molti dei costi sono esternalizzati e quindi non si riflettono sul prezzo.

Costi sanitari

Pagare il cibo quanto realmente vale vorrebbe dire, ad esempio, contabilizzare i costi sanitari. L’impatto ambientale dei sistemi agricoli e alimentari rappresenta, infatti, una minaccia anche per la salute umana.

Il 90 per cento delle emissioni di ammoniaca nell’Unione europea, per esempio, proviene dall’agricoltura. Queste emissioni sono uno dei principali fattori dell’inquinamento atmosferico che uccide migliaia di europei ogni anno. A queste si aggiungono altre minacce per la salute, come la resistenza agli antibiotici, l’esposizione agli interferenti endocrini attraverso gli alimenti, gli imballaggi alimentari e la contaminazione agricola delle fonti idriche. Il cibo di scarsa qualità porta a un’alimentazione meno sana, a malattie cardiovascolari, obesità, diabete, che determinano ricoveri, cure e quindi costi sanitari che ricadono sul singolo e sulla collettività.

Si dovrebbero poi contabilizzare i costi legati alla perdita di biodiversità: nel corso degli ultimi decenni, infatti, è andato perso il 75 per cento della biodiversità coltivata, un patrimonio genetico e nutrizionale inestimabile.

Non solo, l’agricoltura industriale impatta negativamente sugli insetti impollinatori (alcuni dei quali corrono un rischio di estinzione) e alla biodiversità “selvatica” che abita gli ecosistemi.

Costi climatici

Ancora, lo abbiamo già visto, includere le esternalità nel prezzo dei prodotti vorrebbe dire contabilizzare i costi climatici (i sistemi alimentari pesano fino al 37 per cento del totale delle emissioni di gas climalteranti). Infine, dovremmo contabilizzare la manodopera che, dal nord al sud dell’Italia e dell’Europa, quando si parla di agricoltura, troppo spesso è trattata come un costo accessorio, comprimibile e, nei fatti, compresso.

Alcuni scienziati hanno messo insieme tutte queste esternalità per farne una stima monetaria e il risultato è impressionante: 19,8 trilioni di dollari, il doppio di quanto costa complessivamente il cibo (9 trilioni).

In Gran Bretagna hanno calcolato che a fronte di 1 sterlina spesa per acquistare cibo, bisogna aggiungerne un’altra per quello che gli inglesi definiscono hidden cost (costo nascosto). Un costo che non paga chi produce (l’agricoltore), chi vende (il supermercato), e chi compra (il consumatore). Dunque, tiriamo una linea e diciamo che il prezzo giusto del cibo dovrebbe essere almeno il doppio (alcuni sostengono addirittura il triplo). La domanda è, chi può permetterselo?

Gli scienziati che hanno redatto il rapporto delle Nazioni unite, insistono sulla necessità e l’urgenza di «mettere le mani sui costi nascosti» introducendo il True Cost Accounting (TCA), un sistema che permette di stimare (e applicare) il costo reale del cibo.

Provate a immaginare se lo facessimo da domani mattina. Luoghi come McDonald’s, ad esempio, probabilmente non esisterebbero più. Per molti sarebbe una buona notizia se la famosa catena di fast-food fosse costretta a chiudere i battenti. Se guardiamo alla quantità di carne impiegata per servire i milioni di clienti che quotidianamente addentano un panino con sopra il logo della grande “M” gialla – alcuni stimano 50 milioni di hamburger venduti al giorno – allora sì, sarebbe un bel passo avanti per l’ambiente, per la vita di milioni di animali messi all’ingrasso e per le emissioni di gas serra disperse nel processo di produzione dell’hamburger, che sparirebbero immediatamente.

Uso l’esempio di McDonald’s perché è sempre stato un luogo simbolico – nel bene e nel male –, il luogo dove il capitalismo si è materializzato in tutta la sua essenza, il luogo del sotto costo per eccellenza. Ma al contrario di quanto si potrebbe pensare, scrivo di McDonald’s non tanto per demonizzare il modello produttivo (se ne potrebbero scrivere pagine intere), quanto per testimoniarne la funzione sociale. Da questo punto di vista, se McDonald’s chiudesse, per una fetta importante della società sarebbe una notizia disastrosa. Per molti, infatti, è uno di quei posti dove si può fare un pasto completo per una manciata di euro. È un ristorante accessibile a tutti.

Prendo in prestito le parole scritte dall’attore e scrittore Claudio Morici per il Venerdì di Repubblica: «Entri a qualsiasi ora del giorno e puoi trovare, seduti a un tavolo di distanza, una comitiva di anziani che chiacchiera davanti a un milkshake, bambini indiani, bengalesi, cinesi, italiani che corrono da tutte le parti, signore musulmane elegantissime, adolescenti brufolosi che fanno i fichi con le ragazze e agenti immobiliari in pausa pranzo. E poi cinesi che preparano l’esame, transessuali sudamericani al telefono».

È il luogo dove tutto costa poco, è il vezzo del ricco che si concede il junk-food (il cibo spazzatura) di tanto in tanto, è l’unica possibilità accessibile per molti altri, persino per «senza fissa dimora che si riforniscono di bustine di zucchero».

Acuire le distanze

Se da questo momento, come per magia, McDonald’s facesse pagare il costo reale di quell’hamburger, una fetta enorme di popolazione non potrebbe più metterci piede. E se tutte le altre catene facessero lo stesso, se lo facessero i ristoranti etnici dove tutto costa poco più di nulla, milioni di persone non potrebbero più passare una serata in compagnia, avere un momento conviviale.

E, volendo continuare la speculazione intellettuale, se si pagasse il costo reale del cibo anche dentro un supermercato o addirittura in un discount, allora il sistema salterebbe, l’ordine sociale verrebbe meno.

Intendiamoci, non sto sostenendo la necessità di sacrificare il giusto prezzo del cibo sull’altare di McDonald’s o di un qualsiasi discount. Ma dobbiamo stare attenti a guardare solo una faccia della medaglia (quella della sostenibilità e della necessità di incorporare i costi delle esternalità negative) e non l’altra (ovvero, chi potrà permettersi di comprare quel cibo così buono, equo e sostenibile?).

Il nostro compito, quello di un’associazione ambientalista come Terra!, è quello di non acuire le distanze tra chi (pochi) hanno la possibilità di spendere qualcosa in più per il cibo, che possono permettersi di andare a fare la spesa biologica, che semplicemente hanno il tempo di farlo e chi (tanti), questa possibilità non ce l’ha.

Proviamo a semplificarla ancora di più: non si può chiedere di contabilizzare le esternalità (richiesta giustissima) senza pretendere parallelamente di aumentare i salari e creare lavoro.

Per questo la battaglia per un salario minimo è la precondizione di un agire ecologico che avrebbe ricadute positive su ogni anello della filiera. La semplifico così: con salari aumentati, politiche sul lavoro e reddito universale di base, il costo del cibo può salire, la GDO non ha più scuse per tirare sui prezzi con i produttori, i produttori hanno maggior margine per pagare le proprie bollette e compensare gli agricoltori, che a loro volta sono messi nella condizione  di far fronte a costi energetici e danni provocati da eventi climatici anomali. E a vincere saremmo tutte e tutti.

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