Il 12 giugno la Ue ha annunciato l’imposizione di dazi fino al 38,1 per cento sulle auto elettriche d’importazione cinese. La decisione, che entrerà in vigore dal 4 luglio, segue di qualche settimana l’imposizione di tariffe ancora più alte nello stesso settore da parte degli Usa. Tanto a Washington quanto a Brussels si accusa Pechino di sostenere la propria industria dell’Ev con sovvenzioni eccessive, tali da metterla in condizione di operare in regime di “sovrapproduzione”, con grave danno per i profitti delle industrie domestiche e gli equilibri dei prezzi nei relativi mercati.

Tra le aziende più attenzionate su entrambi i lati dell’Atlantico c’è l’ormai famigerata Byd (ironicamente sponsor ufficiale degli Europei tedeschi di questi giorni). Fino a pochi anni fa di Byd si parlava in termini quasi derisori, poi qualcosa è cambiato e oggi l’azienda fondata nel 2003 a Shenzhen è divenuta lo spauracchio di mezzo occidente, Tesla inclusa. Ma il segreto di tanto successo è davvero solo nel generoso sostegno di Xi? La realtà dietro Byd è più sfaccettata di così e soprattutto dice molte cose sui cambiamenti avvenuti nell’automotive con l’avvento dell’elettrico.

Per capire di cosa parliamo è necessario tenere presente come, a partire dagli anni Settanta, l’industria dell’auto occidentale sia andata polverizzandosi in filiere orizzontali, altamente disperse geograficamente e tenute insieme grazie ai bassi costi di trasporto e coordinazione garantiti da nuove tecnologie come il container e il computer.

L’obiettivo dei manager occidentali era di recuperare produttività e profitti attraverso la suddivisione, e quindi la specializzazione, dei processi, oltre che attraverso una maggiore flessibilità dei costi e delle spese improduttive degli inventari (il cosiddetto just in time d’origine giapponese). La strategia ha funzionato per diversi decenni ma a partire dalla crisi del 2008 ha cominciato a mostrare il fianco e, in particolare, durante il biennio pandemico ha rivelato parecchi limiti in termini di fragilità delle supply chain.

A guadagnare dalla disgregazione dei processi industriali occidentali appena descritta, sono state peraltro le economie asiatiche in via di sviluppo, su tutte la Cina. È grazie a queste dinamiche che, tra anni Ottanta e Duemila, Pechino ha accumulato i capitali necessari a entrare in un mercato complesso e strutturato come quello dell’auto. Un altro fattore determinante è stata la disponibilità di abbondante manodopera a basso prezzo. L’abbondanza di capitale e di lavoro ha permesso alle neonate aziende cinesi di affacciarsi sul mercato dell’auto proponendo da subito un modello organizzativo diverso dalle controparti occidentali.

Se la produttività di queste ultime dipendeva ormai dalla globalizzazione delle filiere, le aziende cinesi poterono invece riproporre modelli strategici improntati all’integrazione verticale, ovvero all’idea di occuparsi direttamente di tutte le attività richieste dalla manifattura di un prodotto, un continuum di operazioni che comincia con l’estrazione delle materie e finisce con l’assemblaggio dei componenti.

Proprio ciò che avveniva nelle fabbriche occidentali fino agli anni Settanta. L’esempio più noto di integrazione verticale è forse River Rouge, l’enorme complesso industriale voluto da Henry Ford a inizio Novecento, dove si realizzava in loco tutto ciò che serviva per fare un’auto, persino le piantagioni di caucciù per i pneumatici. Nel pieno della globalizzazione e della dispersione dei processi, Byd e altre aziende cinesi hanno insomma rispolverato il manuale del (neo)fordismo e ciò si è rivelata una mossa particolarmente azzeccata nel momento in cui è cominciata la transizione all’elettrico.

Grazie all’integrazione verticale, Byd ha potuto aumentare il controllo sulla filiera delle materie prime coinvolte nella produzione delle batterie e ciò si è dimostrato un vantaggio competitivo decisivo per le dinamiche del settore.

Oggi Byd si definisce con orgoglio l’azienda «più verticalmente integrata del mondo»: con oltre il 70 per cento dei componenti delle sue auto prodotto direttamente in casa e addirittura una flottiglia di otto navi da cargo, tutte con un gigantesco logo sulla fiancata, che si occupano direttamente del trasporto delle auto in altri continenti. Nemmeno Ford si era spinto a tanto.

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