La globalizzazione ha portato molti vantaggi ma anche molti svantaggi come l’eccessiva potenza economica in mano alle multinazionali private, il degrado ambientale, la diminuzione dei diritti dei lavoratori, l’aumento delle disuguaglianze sociali.

Questi svantaggi sono apparsi molto chiari nelle ultime settimane in relazione alle crisi aziendali di due importanti imprese del tessuto economico modenese: la Mozarc, una delle maggiori imprese del ricco polo biomedicale di Mirandola e la Maserati, famosa costruttrice di auto sportive e, un tempo, di macchine da corsa per la Formula 1.

La non crisi della Mozarc

La Mozarc (ex Bellco) è un’azienda che produce filtri e dispositivi per il trattamento delle patologie renali. È un’azienda con grandi potenzialità, sia in termini di infrastrutture ma soprattutto in termini di competenze professionali. La Mozarc è stata acquistata alcuni anni fa dalla multinazionale statunitense Medtronic che recentemente ha comunicato l’intenzione di chiudere tutti i reparti produttivi e di mantenere solo ricerca e sviluppo, più alcuni servizi a supporto. Questo significa che 350 persone, compresi 20 disabili, perdono improvvisamente il posto di lavoro.

La decisione della multinazionale americana ha creato un vero terremoto a Mirandola perché la Mozarc ha sempre realizzato consistenti profitti e nel periodo della pandemia ha continuato a produrre con forti sacrifici e pericoli di contagio per i dipendenti. Non esistono dunque le premesse neppure giuridiche, secondo la normativa italiana, per un licenziamento di tutto il personale. Così alla manifestazione di protesta delle maestranze erano presenti il presidente della regione Emilia-Romagna Bonaccini e i parlamentari modenesi del Pd.

La famosa Maserati

L’altra azienda in crisi è la Maserati. L’azienda fu fondata nel 1926 da Ernesto Alfieri Maserati. Prima della seconda guerra mondiale la casa del Tridente vinse diverse gare come la Targa Florio, alcuni Grand Prix come quello del Nurburgring, alcune Mille Miglia e la 500 miglia di Indianapolis. Dopo la guerra la Maserati vinse diverse gare di Formula 1 con il mitico Jean Manuel Fangio, Alberto Ascari, Villoresi, Gonzales e Jean Behra. In seguito la Maserati si è dedicata alle Gran Turismo come la MC 12, una delle più potenti Gran Turismo di sempre.

Dal 1968 al 1975 la Maserati è stata di proprietà della casa francese Citroën per poi essere acquisita dal pilota e industriale Alejandro de Tomaso. Nel 1993 passò al gruppo Fiat. Nel 2013 la Fiat trasferì a Grugliuasco la Maserati ma dopo poco fu riportata a Modena dove ci sono le competenze di una classe di tecnici e operai che si tramandano da padre in figlio (come avviene alla Ferrari di Maranello) da quasi 100 anni. Dopo la fusione tra il Gruppo Fiat e Psa, dal 2021 la Maserati appartiene al comprensorio Stellantis che ha sede in Olanda.

Ora, dopo cassa integrazione ed esuberi pilotati, è stata annunciata la chiusura dell’Innovation Lab voluto da Marchionne a Modena per progettare la nuova MC20 e la linea di motori elettrici Folgore, via via adottati da tutti i modelli Maserati, ma anche dalle Alfa Romeo Stelvio, Giulia, Tonale. Un presidio strategico nel momento in cui la transizione energetica cominciava ad essere il pane quotidiano per il settore dell’auto in Italia.

La sua chiusura, con lo spostamento di 400 tecnici di alto livello e delle tecnologie in una specie di deposito non può che far dubitare sulle reali intenzioni di Stellantis. Modena è la capitale italiana dell’automotive e la chiusura o il trasferimento all’estero della Maserati solleverebbe molti problemi perché la città non vuole certo perdere l’enorme patrimonio di competenze, soprattutto nel campo dei motori, della Maserati.

La logica delle multinazionali e l’etica economica

Quanto sta avvenendo alla Mozarc e alla Maserati risponde alla logica del puro profitto delle multinazionali ed è stato deciso da manager che vivono assai lontano da queste due aziende e che ignorano i diritti di centinaia o migliaia di lavoratori che con le loro famiglie vivono di quel lavoro, lavoratori ai quali spesso si deve il successo di quell’impresa.

Un tempo, quando esisteva ancora un’etica dell’economia, nelle università si insegnava che un’impresa non appartiene solo agli azionisti. È un fatto sociale e la sua patologia colpisce anche dipendenti, i fornitori, le banche che finanziano quell’impresa, che sono gli azionisti non possessori del capitale sociale. Pertanto le decisioni che portano alla chiusura di quell’impresa devono tener conto dei diritti di tutti gli azionisti, specialmente quelli dei lavoratori.

La globalizzazione ha diffuso la cultura del mondo statunitense che lascia la massima libertà all’imprenditore che è così libero di licenziare come e quando vuole. Così in Italia, il diritto del lavoro degli ultimi 25 anni è caratterizzato dalla moltiplicazione dei contratti di lavoro atipici, anche chiamati contratti di lavoro flessibili, contratti precari, contratti a tempo determinato, ecc. Si è passati da un diritto del lavoro che garantiva un impiego a lungo termine, cioè a tempo indeterminato, a un diritto del lavoro sempre meno garantista, anche se esistono normative che regolano comunque la chiusura delle aziende e la protezione dei lavoratori.

Questo diritto del lavoro sempre meno indirizzato alla difesa del lavoratore è stato perseguito dalla politica con l’intento di ridurre il costo del lavoro aumentando così i profitti delle imprese. Una politica sbagliata secondo i buoni principi dell’economia. I profitti delle imprese non devono derivare dalla riduzione dei costi del lavoro ottenuto riducendo le garanzie del lavoratore.

I profitti delle imprese si ottengono dall’aumento della produttività che nasce con l’investimento nella ricerca, nella tecnologia, nell’innovazione e nella formazione del personale. Il Pnrr prevede nella quarta missione proprio gli investimenti nella scuola, nella ricerca e nella cultura con le relative riforme di cui ancora non si è vista traccia.

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