- Come quota di mercato dell’auto elettrica, l’Italia ha perso cinque posizioni rispetto al 17° posto del 2021, ci ha superato anche la Spagna.
- Gli ultimi incentivi sono stati aperti anche alle auto diesel e non sono state comprese le flotte aziendali che sono tra le più interessate a investire nell’elettrico.
- Il confronto con le politiche messe in campo e i risultati ottenuti dagli altri paesi europei smentiscono le tesi del ministro Cingolani.
Europa si avvia a vietare la vendita di auto a benzina e diesel nel 2035 ma l’Italia resta tra i fanalini di coda nella transizione verso la mobilità elettrica: le immatricolazioni di auto a batterie sono calate del 18 per cento nei primi sei mesi del 2022, in gran parte grazie alla rimozione di fatto degli incentivi all’acquisto.
La filiera dell’auto afferma che senza incentivi monetari le auto elettriche non si vendono; ha dunque ragione? L’esperienza di altri paesi europei dimostra che ciò non è sempre vero; un peso maggiore in Italia hanno avuto la continua incertezza politica sugli incentivi e la scelta finale di distribuire fondi a pioggia anche alle auto non elettrificate.
I dati degli ultimi sei mesi
Partiamo dai numeri italiani. Secondo i dati dell’associazione delle case estere Unrae, nei primi sei mesi dell’anno si sono vendute 25.082 auto a batterie contro le 30.390 dello stesso periodo del 2021. La loro quota di mercato è sì cresciuta dal 3,4 per cento al 3,6 per cento, ma solo perché le vendite di auto a benzina e diesel sono diminuite ancora di più; ed è scesa rispetto al 4,6 per cento dell’intero 2021. In calo, sia pure lieve, anche le vendite di auto ibride ricaricabili (plug-in), diminuite dell’1,8 per cento a 37.330. Queste ultime si giovano di incentivi di poco inferiori alle elettriche e si usano tranquillamente anche senza ricaricarle, il che le rende più pratiche ma meno vantaggiose di quelle a batterie in termini di CO2.
Cosa è successo in Europa? Gli ultimi dati disponibili per un confronto generale sono quelli diffusi dall’Acea, l’associazione dell’industria dell’automobile europea, sul primo trimestre 2022. Questi dati dipingono un quadro impressionante: l’Italia è l’unico paese in Europa dove le vendite di auto elettriche sono calate. Il calo italiano (-15 per cento in tre mesi) si confronta con un aumento medio del 53 per cento nell’Ue e del 60 per cento contando anche il Regno Unito e i paesi Efta, aumento avvenuto nonostante il mercato Ue nel suo complesso si fosse contratto del 12 per cento.
La grande traversata all’elettrico ha molti perdenti
Ventiduesimi su 30
La quota di mercato del 3,3 per cento in Italia vale il 22° posto su 30 paesi, dietro anche nazioni non proprio campionesse di ecologia come Romania e Ungheria. Nello stesso periodo ci ha superato anche la Spagna, dove la quota delle auto a batterie è più che raddoppiata dall’1,9 al 4,4 per cento. L’Italia ha perso cinque posizioni rispetto al 17° posto del 2021.
I Paesi dove la quota di mercato delle auto a batterie supera già il 15% sono sette; oltre alla Norvegia (82,9 per cento) e all’Islanda (42,3 per cento) ci sono Svezia, Danimarca, Svizzera, Olanda e Regno Unito. Altri sette paesi hanno superato il 10 per cento compresi Germania, Francia e anche il Portogallo.
Al Consiglio europeo di martedì scorso il ministro Cingolani si è presentato chiedendo un rinvio del divieto di vendere delle auto con motore a scoppio, e lo ha giustificato anche con una delle tesi preferite della lobby anti-elettrico: le auto elettriche sono care, quindi sono per ricchi: «Ci sono in Europa paesi con reddito pro-capite di 6mila euro annui, e altri con 80mila euro. Nei primi, un’auto elettrica può costare dieci anni di salario. (…) Come è emerso dalla discussione di oggi, le ambizioni sono proporzionali al Pil pro-capite».
Le cifre fornite dal ministro sono sbagliate: anche nei paesi a reddito più basso ci vogliono tre anni di salario, non dieci, per acquistare un’auto elettrica economica. E se è vero che i paesi ricchi del Nord Europa sono più ambiziosi, la correlazione non è perfetta: ci sono sette paesi europei con Pil pro-capite inferiore a quello italiano e una quota di vendite di auto elettriche più elevata; e ci sono paesi con Pil pro-capite pari alla metà di quello italiano che hanno appoggiato le proposte della Ue senza condurre battaglie come quella di Cingolani.
Anche il collegamento tra la disponibilità di incentivi monetari e il volume di vendite non è sempre lineare. È vero che tra i paesi dove si vendono più auto elettriche ci sono in testa Norvegia e Svezia; la prima tassa fortemente le auto con motore a scoppio, la seconda ha un sistema di bonus/malus; il Portogallo però, che si è giovato degli incentivi varati proprio nel 2022, ha stanziato fondi limitati e posto un tetto molto basso al numero di auto incentivabili.
Ancor più significativo è il caso inglese. Londra introdusse le agevolazioni nel 2011 con incentivi fino a 5mila sterline (quasi 6mila euro) per auto a batterie, mantenuti fino al 2015 e ridotti poi gradualmente; i contributi sono progressivamente scesi fino a 1.500 sterline nel dicembre 2021 e poi a zero all’inizio di giugno. I volumi di vendita delle auto a batterie hanno continuato a crescere per tutto il periodo dei tagli, con le vendite di auto elettriche salite dalle 15mila unità del 2018 a quasi 38mila del 2019, 108mila nel 2020 e oltre 190mila nel 2021. Nei primi 5 mesi del 2022 – prima quindi dell’azzeramento – sono salite a 92mila dalle 54mila di un anno prima.
L’unicum degli incentivi italiani
In Italia i fondi 2021 erano finiti a fine ottobre, e il pacchetto di incentivi 2022 è diventato operativo solo alla fine di maggio. L’incertezza ha quindi depresso la domanda per tutta la prima parte del semestre. Quando il via libera è arrivato, poi, ha rilanciato gli incentivi alle auto a benzina e diesel – un unicum in Europa – e ha lasciato fuori le flotte aziendali, un settore in cui la domanda di auto elettriche è dovunque più forte.
Gli incentivi servono perché il costo di produzione delle auto elettriche è per ora più elevato di quello delle altre, a causa soprattutto delle batterie, oltre 8mila euro in più per un’auto media secondo un recente studio AlixPartners; il costo di utilizzo inferiore, sia per le ricariche che per la manutenzione, non compensa per ora questa differenza. L’aumento dei volumi di vendita dovrebbe ridurre i prezzi grazie alle economie di scala, ma un confronto oggi come oggi è difficile, poiché le crisi internazionali hanno fatto impennare sia i prezzi dei carburanti che quelli dell’energia elettrica.
Il ritardo italiano è dovuto anche alla mancanza di colonnine di ricarica? A guardare ai numeri pubblicati di recente dall’Acea, sembra che la correlazione tra popolarità dell’elettrico e disponibilità di punti di ricarica non sia così stretta: secondo l’associazione, metà dei punti di ricarica europei sono concentrati in due soli paesi: Olanda con 90mila e Germania, poco meno di 60mila; l’Italia si piazza con 23mila colonnine al quinto posto dopo Francia e Svezia, e la nostra densità per chilometro quadrato è vicino alla media europea.
La campagna anti-elettrica della lobby italiana, appoggiata dai ministeri dello sviluppo economico e della transizione ecologica, può avere avuto un peso nello scoraggiare qualche acquirente. Perché l’Italia prosegue in un atteggiamento nei confronti della mobilità elettrica che è nel migliore dei casi ondivago, quando non decisamente ostile; e che conseguenze può avere?
Qualche anno fa in un’intervista un alto dirigente europeo di un costruttore asiatico sbottò: «A voi italiani, dell’ambiente non frega un c...». L’affermazione da bar contiene un nocciolo di verità, confermata dalla storica irrilevanza dei partiti ecologisti nostrani, ma non può bastare.
Neppure la presenza in Italia di una filiera automobilistica sbilanciata sui motori a scoppio, e in particolare sui diesel, sembra una ragione sufficiente. Nelle prime posizioni per diffusione delle auto elettriche in Europa, con quote superiori al 10 per cento, ci sono anche colossi industriali come Germania e Francia, che con la transizione ecologica affrontano gli stessi problemi dell’Italia.
L’impegno relativamente scarso del governo italiano si è concretizzato, nel Pnrr, in uno stanziamento di 2 miliardi di euro per lo «sviluppo di una leadership internazionale industriale e di ricerca e sviluppo nelle principali filiere della transizione»; la somma comprende 1 miliardo per «Rinnovabili e batterie» e 300 milioni per la filiera dei bus elettrici. La Spagna, paese più piccolo e non certo più ricco dell’Italia ma la cui produzione di auto è pari a quattro volte quella del bel paese, ha stanziato nell’ambito del suo piano di ripresa Perte 4,3 miliardi pubblici solo per lo «sviluppo del veicolo elettrico e connesso».
Con l’attuale frenata delle vendite il mercato italiano diventa meno interessante per chi sta investendo sull’elettrico anche all’estero, proprio in un periodo che sarà cruciale per ridefinire la filiera automobilistica a livello europeo. Tenuto conto che l’Italia soffre già per una produzione di auto ridotta ai minimi termini e che dispone di un solo costruttore (straniero) i rischi di morte prematura della nuova filiera elettrica sono elevati.
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