L’economia dovrebbe servire la società e non il contrario. La società che dovremmo creare è una società giusta, libera, inclusiva e sostenibile». Così esordisce, in una sua lezione, Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001. A pochi giorni dal primo maggio è utile tornare a riflettere sul capitalismo e sul modo di fare impresa. Per l’80 per cento degli italiani è necessario riformare il modello capitalistico, sottraendolo, almeno in parte, alla mera logica del profitto. Una necessità che si scontra, per l’opinione pubblica, con le spinte predatorie, estrattive e avide che guidano la gran parte di imprenditori e manager. La possibilità di un cambio di rotta è, tuttavia, ritenuta plausibile dal 45 per cento degli italiani. Il modello d’impresa ritenuto più credibile lungo questa via è quello cooperativo-mutualistico (l’83 per cento delle persone ritiene che oggi ci sia più bisogno di aziende del genere).

Le opinioni degli italiani

Per quanto attiene alle imprese capitalistiche gli italiani pongono maggiore fiducia nelle capacità riformatrici delle medie imprese (39 per cento), rispetto alle grandi società (28) e alle multinazionali (14). I temi con cui lastricare il percorso riformatore sono molteplici e portano alla luce l’agenda delle complessità esistenziali e sociali contemporanee.

Al primo posto c’è il tema della salute delle persone (52 per cento) e al secondo il cambiamento climatico (46), mentre in terza posizione si colloca il problema della lotta alle disuguaglianze sociali. Al quarto posto troviamo un aspetto più complessivo: per il 34 per cento degli italiani le imprese dovrebbero farsi carico dell’impegno di costruire una società migliore. La classifica dei fattori di impegno per le aziende si completa con temi quali la lotta alla povertà (31 per cento), il rafforzamento del welfare (24), la qualità delle città e la lotta alla disparità di genere (22), l’impegno contro ogni discriminazione sessuale (21), l’integrazione degli immigrati (14), la tutela dei minori (13) e la lotta contro il razzismo (9). Sono i dati dell’osservatorio Fragilitalia del centro studi Legacoop e Ipsos, contenuti in una ricerca effettuata nella seconda metà del 2023. Dall’indagine emergeva che le imprese cooperative, rispetto alle loro dirimpettaie capitalistiche, sono più capaci di garantire forme di integrazione degli immigrati (62 per cento), di lottare concretamente contro il razzismo (57) e contro la povertà (57); di essere in prima linea nella lotta alla disparità di genere, nella tutela dei minori e soprattutto nella costruzione di una società migliore (51).

La classifica dei temi su cui si dovrebbero impegnare le imprese porta con sé anche un’altra graduatoria: quella delle iniziative che possono essere maggiormente premiate, con effetti positivi anche in termini di acquisti, da parte dei consumatori. Ne fuoriesce una mappa strategica per i purpose aziendali che mette ai primi due posti il miglioramento della salute delle persone (61 per cento) e l’impegno per costruire una società migliore (59 per cento). Seguono la tutela dei minori (56), la lotta alla povertà (58), la qualità delle città (54), il cambiamento climatico (56) e la lotta alle disuguaglianze sociali (54).

Accompagnano queste azioni premianti, con tassi non maggioritari, temi quali la lotta contro ogni forma di razzismo e quella contro le discriminazioni sessuali (46 per cento), il potenziamento del welfare (45 per cento), la riduzione delle differenze di genere (44 per cento) e l’integrazione degli immigrati (39 per cento).

La sfida di oggi

La sfida per la riforma del modello capitalistico è da tempo sul terreno. Il neo liberismo imperante, negli ultimi trent’anni, ha cercato di imporre la propria egemonia spacciandosi come modello insostituibile, sostenendo che non esistono alternative al capitalismo iper-profittevole.

Per i neoliberisti le leggi dell’economia dettano l’insieme delle politiche economiche e il mercato libero porta vantaggi a tutti. Le pretese di egemonia neoliberiste sono naufragate miseramente sotto il peso delle crisi che si sono susseguite nei decenni e sotto il fardello delle crescenti disuguaglianze sociali.

Nonostante la crisi di questo modello, un’alternativa stenta a mostrarsi e a prendere corpo. La “mano invisibile” della cultura che guida verso l’avidità, di cui parla Stiglitz, mantiene ancora tutta la sua forza, mentre la cultura che guida verso il bene comune, verso un’economia di equilibrio, sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale e di benessere esistenziale delle persone stenta a prendere campo. La sfida, oggi più di ieri, è sul terreno e non è detto che rimandarla ulteriormente sia un bene per le stesse imprese.

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