Mentre alla Cop28 di Dubai va in scena la melina decisionale sul cambiamento climatico nella società cresce l’apprensione per i mutamenti, ma, allo stesso tempo, stenta a svilupparsi una cultura total green in grado di ridurre l'impatto delle attività umane sulla terra. I cittadini di 31 paesi monitorati da Ipsos Global Advisor esprimono tutta la loro preoccupazione per le sempre più gravi trasformazioni climatiche in atto. Poco più di un terzo dei cittadini dei vari paesi giudica l’azione dei governi all’altezza della situazione.

Tutti insoddisfatti

Nel quadro europeo l’insoddisfazione regna sovrana. Solo il 38 per cento di inglesi e irlandesi ritiene che il proprio governo si stia impegnando per affrontare il cambiamento climatico. Il dato scende al 35 per cento in Svezia, al 29 in Germania, al 26 in Italia, al 25 in Spagna e al 23 in Francia e Polonia. Il giudizio su quanto stanno facendo le imprese non va meglio.

Nel nostro paese solo il 27 per cento dell’opinione pubblica promuove l’impegno delle aziende. In Germania il 24, in Spagna il 21 e in Francia il 18. Leggermente più positiva è la valutazione sulle azioni realizzate dalle imprese espressa da inglesi (34 per cento), svedesi (35) e olandesi (31). La critica rivolta alle aziende è quella di fare dichiarazioni altisonanti, ma ancora troppo pochi mutamenti concreti.

Non a caso il 39 per cento degli italiani ritiene che le aziende si profondano in asserzioni ambientali di principio, senza impegnarsi per un reale cambiamento. Di questa opinione sono anche il 48 per cento degli inglesi, il 46 di olandesi, irlandesi e spagnoli, il 40 dei francesi e il 38 di svedesi e tedeschi. L’opinione pubblica internazionale valuta come insufficiente anche l’impegno profuso dai singoli cittadini.
Gli sforzi delle persone sono riconosciuti maggiormente in Gran Bretagna (37 per cento), Olanda (36), Svezia (33) e Germania (32), mentre in Italia e Belgio siamo al 28 per cento, in Polonia al 27, in Spagna e Francia al 26. Il quadro critico verso stati, aziende e cittadini è accentuato dalla convinzione che il rischio climatico sia un’emergenza e che i danni prodotti siano ormai molto gravi.

L’Italia è il primo paese europeo (66 per cento) per denuncia dei danni dovuti dall’impazzimento. Seguono spagnoli (64), francesi (56), ungheresi (51), tedeschi e polacchi (47), inglesi (34) e svedesi (24). Il quadro non sembra destinato a migliorare, anzi il 76 per cento delle persone in Spagna e il 75 in Italia fanno previsioni catastrofiche per i prossimi 10 anni.

Il livello più contenuto di apprensione per il futuro del clima lo troviamo in Svezia (51 per cento), per salire al 71 della Francia, al 66 dell’Olanda, al 63 della Germania e al 57 della Gran Bretagna.
Più di un terzo degli italiani (36 per cento), infine, ritiene molto probabile il rischio di essere sfollato dalla propria abitazione a causa di un evento climatico estremo. La medesima angoscia è espressa da spagnoli (41 per cento), irlandesi (35), francesi (28), britannici (25), tedeschi e olandesi (19).

Sul fronte della lotta al cambiamento climatico, oltre all’insufficienza di impegno di stati e imprese, la maggioranza dell’opinione pubblica italiana (66 per cento) ritiene inadeguato il livello di informazioni che il governo sta fornendo.
Un giudizio critico condiviso dal 61 per cento in Francia, dal 60 in Spagna, dal 56 in Germania, Irlanda e Gran Bretagna, dal 49 in Olanda e dal 48 in Svezia. Anche i media e le imprese sono sotto accusa per la limitatezza delle informazioni divulgate. L’inadeguatezza comunicativa delle imprese è denunciata dal 66 per cento di italiani e francesi, dal 62 degli spagnoli, dal 61 dei tedeschi e dal 57 degli inglesi.

Media e abitudini personali

La manchevolezza dei media è denunciata dal 34 per cento degli olandesi, dal 31 dei tedeschi, dal 29 degli inglesi, dal 23 di spagnoli e francesi e dal 22 degli italiani.
L’indagine, mettendo a confronto i dati raccolti nei vari paesi, evidenzia non solo gli alti tassi di preoccupazione presenti nei vari paesi, ma anche la difficoltà di imprese e persone (e non solo degli stati) di mettere in campo un livello di azione sui mutamenti adeguato ed efficace. Stentano le imprese schiacciate dalla logica del profitto e da una complessità legislativa che non aiuta.

Faticano le persone e la società nel suo complesso a disintossicarsi dagli stili di vita consumistici e ad alto impatto ambientale che hanno caratterizzato gli ultimi 40 anni.
La sfida che il cambiamento climatico ci pone di fronte non è quella di mettere in atto una serie di comportamenti virtuosi, ma di mutare modello produttivo ed esistenziale, di abbracciare una cultura dell'ecologia totale, dell’impatto zero delle attività umane sull’ambiente che stride con il modello di produzione liberista ed è ancora ben lontana dall'essere egemone nella cultura e nei comportamenti quotidiani di persone e imprese.

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