La sanità italiana è in agitazione. Ieri i medici e gli altri sanitari che aderiscono a Aaroi-Emac, Fassid e Cisl hanno scioperato per protestare contro il governo per la manovra finanziaria e per le politiche sulla salute adottate.

«Bisognava dare un messaggio chiaro alla politica di governo: il servizio sanitario ha bisogno di aiuto, e la legge di Bilancio non glielo dà», dicono i sindacati. «Il governo scaccia dal pubblico impiego i professionisti di cui la sanità ha bisogno, nel silenzio delle regioni che ricorrono a cooperative e gettonisti aprendo voragini nei loro bilanci». Il 5 dicembre scorso avevano scioperato Anaao e Cimo, due sindacati degli ospedalieri. Protestano, ma la crisi della sanità parte da lontano.

L’articolo 32 della nostra Costituzione recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Per garantire questo diritto, nel 1978 il governo Andreotti approvò la legge n. 833 proposta dalla ministra della Sanità Tina Anselmi, che istituì il nostro “Servizio Sanitario Nazionale” (Ssn), a lungo uno dei migliori al mondo. Ma poi, prima la legge n. 421 del 1992 trasformò le Unità sanitarie locali in Aziende sanitarie locali (Asl), che – essendo aziende – dovevano farsi concorrenza tra loro e badare ai costi, poi il decreto legge n. 502 del 1992 introdusse la possibilità di strutture private accreditate, in base alla quale ogni regione può accreditare cliniche proprietà di privati nelle quali i cittadini possono curarsi, lo Stato paga il tuo ricovero e il privato incassa. E fu l’inizio della fine.

Oggi, se cerchiamo di prenotare una visita o una tac in un ospedale pubblico ci tocca aspettare mesi o persino anni, se chiamiamo il nostro medico di famiglia quello quasi sempre non c’è, se andiamo al pronto soccorso rischiamo di restare seduti o in barella per ore o giorni. Così, non ci resta che rivolgerci a una clinica privata, e spesso pagare.

Le ragioni della crisi

Le ragioni di questa crisi sono tante: investiamo poco e male nella sanità pubblica; i medici e gli infermieri sono pochi e sottopagati; interi settori della sanità pubblica non funzionano. E il governo non sta facendo nulla per cambiare le cose.

Cominciamo dal punto fondamentale: i soldi. Che sono pochi e investiti male. Negli anni Novanta furono create le Asl perché si volevano evitare sprechi, che c’erano e ci sono ancora oggi: ma la sanità pubblica non può agire secondo le logiche del profitto. Le cose sono peggiorate nel decennio 2010-2019: i vari governi hanno sottratto al Ssn oltre 37 miliardi di euro, di cui circa 25 miliardi nel 2010-2015 e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019. Complessivamente, il Fabbisogno sanitario nazionale (Fsn) è aumentato di 8,2 miliardi di euro, cioè in media dello 0,9 per cento all’anno, un tasso inferiore all’inflazione media annua nello stesso periodo, che è stata dell’1,15 per cento.

Oggi, la stagione dei tagli alla sanità sembra conclusa: tra il 2020 e il 2022 il Fsn è cresciuto di 11,6 miliardi di euro, però queste risorse in più sono state interamente destinate all’emergenza Covid e non a rafforzare il Ssn. Il governo Meloni con la legge di Bilancio 2023 ha aumentato il Fsn di 2,15 miliardi per il 2023 (di cui 1,4 miliardi assorbiti dalla crisi energetica), di 2,3 miliardi per il 2024 e 2,6 miliardi per il 2025: cifre irrisorie, già quest’anno in gran parte assorbite dall’inflazione. La spesa sanitaria del nostro Paese nel 2022 si attesta al 6,8 per cento del Pil, 0,3 punti percentuali in meno sia rispetto alla media Ocse (7,1 per cento) sia alla media europea (7,1 per cento). Sono 13 i Paesi dell’Europa che investono più dell’Italia, con un gap che va dai +4,1 punti percentuali della Germania (10,9 per cento del Pil) ai +0,3 punti percentuali dell’Islanda (7,1 per cento del Pil). Anche la nostra spesa sanitaria pubblica pro capite nel 2022, pari a 3.255 dollari, rimane ben al di sotto della media Ocse (3.899 dollari).

Profitti privati

Poi spendiamo male i soldi destinati alla sanità, che vengono drenati verso il settore privato. Secondo l’Istat, nel 2022 la spesa sanitaria è stata pari a 171.867 milioni di euro, così ripartiti: 130.364 milioni di spesa pubblica e 41.503 milioni di spesa privata, di cui 36.835 milioni rappresentano la cosiddetta “spesa out-of-pocket” – soldi che i privati cittadini hanno pagato di tasca propria per curarsi in cliniche private – e 4.668 milioni di spesa intermediata, cioè pagata dalle assicurazioni sanitarie. In altre parole, quasi 1 euro su 3 finisce nelle tasche degli imprenditori privati. E se ci sono imprenditori della sanità privata ispirati da ideali di giustizia, solidarietà ed eguaglianza, ce ne sono altri – probabilmente la maggioranza – che invece badano soprattutto a fare soldi. Scoprirlo è facile: basta consultare il Rapporto sulla qualità degli outcome clinici negli ospedali italiani che l’Agenas – l’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali – redige ogni anno.

Così, si scopre che nel 2022 in Italia ci sono stati 6,9 milioni di ricoveri, di cui 5,1 in ospedali pubblici e quasi 1,8 in quelli privati accreditati. Rispetto al 2019, gli ospedali pubblici hanno perso 740.788 ricoveri, che diventano 833.749 se togliamo i 92.961 ricoveri Covid, che nel 2019 non c’erano. Tradotto in percentuale fa un meno 13 per cento: come se in Italia in 4 anni avessimo perso oltre 17mila posti letto.

Secondo la legge, il Ssn accredita gli ospedali privati per “garantire i livelli essenziali ed uniformi di assistenza”. Sulla carta, quindi, dovrebbero avere stessi diritti e stessi doveri del pubblico: ma non è così. Il privato accreditato sceglie di fornire quelle prestazioni sanitarie che ritiene più redditizie (che lo Stato paga con tariffe di rimborso più elevate) e meno rischiose (dove è improbabile che il paziente deceda o che si verifichino danni che potrebbe provocare costose beghe legali). Per esempio, nell’anno 2020 negli ospedali pubblici sono stati trattati l’85 per cento dei casi di infarto miocardico acuto, l’87 per cento dei casi di ictus ischemico, il 76 per cento dei casi di scompenso cardiaco; sono stati effettuati il 73 per cento degli interventi chirurgici per tumore del polmone, il 76 per cento di quelli per tumore dello stomaco. Quindi, se hai un infarto, un ictus, o un cancro, e rischi la vita, ti ricoverano in un ospedale pubblico. Invece il privato cosa fa? Nel privato si effettuano il 78 per cento degli interventi per inserimento della protesi del ginocchio (rimborso: 12.101 euro), il 68 per cento degli interventi di chirurgia bariatrica per la cura dell’obesità (5.861 euro), il 66 per cento degli interventi di artrodesi (19.723 euro); a Milano il 77 per cento degli interventi di sostituzione di valvole cardiache (17.843 euro), il 67 per cento dei bypass coronarici (19.018 euro). Poi, il privato si è specializzato nella riabilitazione dei pazienti che hanno subito traumi neurologici o fratture, che richiedono ricoveri lunghi anche anni, rimborsati anche tra i 150 e i 300 euro per paziente al giorno. Invece, in un ospedale privato raramente troverete un pronto soccorso o un reparto di terapia intensiva: troppi rischi e pochi guadagni.

Così, gli ospedali pubblici nel 2022 hanno perso 1,27 miliardi rispetto al 2019, quelli privati hanno guadagnano 57,7 milioni. E chi ha bisogno di una tac o di un intervento chirurgico se non ha i soldi aspetta in lista d’attesa, se li ha si rivolge a una clinica privata.

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