Il governo ha adottato una politica di bilancio prudente, ma di fatto continua a procrastinare la soluzione ai problemi strutturali italiani
Da quando l’Italia è entrata nell’euro ha avuto davanti a sé due alternative di politica di bilancio: dare un colpo severo e definitivo al debito pubblico attraverso una manovra di bilancio che faccia emergere un avanzo primario consistente e permanente, con l’aspettativa di beneficiare di una riduzione del costo del denaro che permetta di non sacrificare troppo la crescita economica; oppure puntare su un forte sostegno alla crescita attraverso un disavanzo pubblico importante, volto a migliorare la capacità produttiva del paese e tale da far aumentare il reddito italiano in misura tale da contenere il peso del debito pubblico seppure aumentato un valore assoluto.
Di fatto, da anni l’Italia oscilla tra queste due alternative, tranne gli anni del Covid dove è stato giocoforza puntare sul disavanzo pubblico come tutti i paesi del mondo non già per sostenere una forte crescita ma per riparare a una forte caduta di reddito.
La via di mezzo
Fra queste due alternative, l’Italia ha finito sempre per scegliere la via di mezzo: nessun drastico taglio al debito pubblico per evitare di affossare l’economia; nessun vero sostegno all’economia per evitare di far crescere il debito pubblico.
E questa è stata ancora una volta la scelta del governo, che ha adottato una politica di bilancio prudente per il 2025 con un indebitamento netto che scenderà sotto il 3 per cento solo nel 2026 e un debito pubblico che oscilla sopra al 135 per cento del Pil per alcuni anni. La via di mezzo può essere considerata una scelta di saggezza, ma procrastina i problemi della nostra economia senza portare alcuna soluzione.
Tanto più che il nostro bilancio pubblico appare ostaggio di alcune scelte fatte nel passato, che sono state finanziate con interventi puntuali non ricorrenti, sicché ogni governo è poi costretto a cercare risorse finanziare non già per nuove iniziative ma per rifinanziare quelle vecchie. Si tratta essenzialmente della riduzione del cuneo fiscale che ogni governo dice di voler finanziare in via strutturale ma che poi finisce sempre per basarsi su risorse provvisorie.
E anche questo governo ha introdotto forme di finanziamento provvisorie come il “contributo” delle banche che rappresenta un anticipo d’imposta che farà calare il gettito negli anni futuri e che necessiterà, quindi, di essere sostituito da qualche altro espediente.
Pesa sulla politica di bilancio del nostro paese un’impostazione ideologica: quella di annunciare ad ogni campagna elettorale di voler ridurre le tasse senza avere la capacità e il coraggio di ridurre la spesa pubblica. In realtà, la spesa pubblica italiana, al netto della spesa per interessi e della spesa per pensioni (entrambe difficili da toccare se non negli anni futuri), non è elevata, sicché non ci sono spazi per ridurre la spesa senza pregiudicare la qualità e la quantità di servizi offerti ai cittadini.
Squilibri permanenti
Ecco allora che la riduzione delle tasse finisce per essere riservata ai bacini elettorali del governo (come il caso dei lavoratori autonomi), l’evasione fiscale viene tollerata per avversione ideologica al fisco, il gettito si concentra su una platea ridotta di tartassati e la qualità dei servizi si degrada.
Un governo che “non vuole mettere le mani nelle tasche dei cittadini” come recita uno slogan abusato, dovrebbe avere il coraggio di puntare su un forte disavanzo pubblico nell’ipotesi che la riduzione delle imposte solleciti una crescita economica tale da ripagare la caduta di gettito.
Esempi di altri paesi hanno dimostrato che una simile manovra ha molte probabilità di fallire, generando squilibri interni ed esterni, ma ciononostante si insiste nel promettere riduzioni di imposte. E poiché non si sa e non si può incidere sulla spesa pubblica, si finisce per avere questa via di mezzo fatta di piccole riduzioni di tasse e di qualche limatura di spesa pubblica per fare spazio ad altre piccole spese che consentano al governo di turno di dichiarare che si sono soddisfatte alcune istanze ed obiettivi (riduzione delle tasse, sostegno alla famiglia, attenzione ai pensionati al minimo, ecc.).
Il piano di bilancio a medio termine che il Mef ha elaborato per questo governo proietta al 2029 un paese sempre alle prese con gli stessi problemi, con squilibri permanenti, politiche di bilancio che aggiustano al margine senza risolvere nulla.
E pensare che un simile bilancio dovrebbe disegnare un percorso programmatico per dare uno scenario di fondo a imprese e lavoratori e orientare le loro scelte. Il solo messaggio che finisce per apparire da questo esercizio previsionale è quello, molto italiano, di “arrangiatevi” e che ognuno si salvi come può.
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