Alcuni commentatori hanno espresso opinioni molto negative sull’astensione di tutti i partiti italiani nel voto con cui il parlamento europeo (Pe) ha varato il nuovo Patto di stabilità e crescita (Psc), che fissa le regole fiscali europee presumibilmente per molti anni a venire. I soliti italiani che al momento delle grandi scelte europee si tirano indietro confermerebbero lo stigma d’inaffidabilità del nostro paese e lo isolerebbero dal club di chi conta. A nostro giudizio, questa bocciatura in blocco dei nostri rappresentanti in Europa è sbagliata per diversi motivi.

Prima di tutto non è vero che solo “gli italiani” non hanno votato a favore. È vero sì che nessuno degli italiani ha votato a favore, ma con gli italiani si sono astenuti alcuni socialdemocratici tedeschi. Hanno invece votato contro i socialisti belgi, olandesi, austriaci e francesi, nonché i Verdi tedeschi, pur essendo al governo sia nel loro paese che nella maggioranza Ursula in Europa.

Com’è chiaro, non si tratta solo di nazionalisti, euroscettici e populisti ecc., e non si capisce perché lo stigma di inaffidabilità o di altra natura debba ricadere solo sui “soliti italiani”.

In secondo luogo, va spiegato che il Psc entrato nell’aula del Pe è sostanzialmente quello uscito dal negoziato intergovernativo (il Consiglio dei ministri economico-finanziari, EcoFin), nel dicembre 2023, con alcune correzioni apposte durante il tragitto tra EcoFin, Consiglio dell’Unione e Pe.

Esso può essere valutato secondo due criteri. L’interesse nazionale puro e semplice, che guarda solo se il nuovo Psc sia più o meno oneroso del precedente (su cui si è concentrato il dibattito nostrano, anche da parte di autorevoli europeisti), oppure il progresso dell’integrazione europea come pilastro dell’interesse nazionale. Da questo punto vista, che secondo noi dovrebbe essere la stella polare di chi ci rappresenta in Europa, il Psc partorito dall’Ecofin, nonché il testo finale, non è affatto un accettabile compromesso.

Conflitti fra membri

In sintesi, come ben spiegato da Giuseppe Pisauro su questo giornale, il nuovo Psc non risolve nessuno dei problemi applicativi tipici del vecchio Patto, sospeso dal 2020, e di fatto indebolisce, quando non cassa del tutto, i principali punti innovativi della prima proposta di riforma avanzata dalla Commissione europea nell’autunno 2022. Quei punti erano:

  1. maggiore chiarezza e coerenza tecnica, con il nuovo focus sulla sostenibilità del debito nel medio/lungo termine anziché i singoli deficit e debiti annuali
  2. migliore efficacia preventiva e correttiva, passando dal vecchio insieme di regole meccaniche uguali per tutti a un ventaglio di percorsi individuali concordati dalla Commissione con i singoli governi (“traiettorie”).

Con il testo approvato, l’imposizione di clausole di salvaguardia su riduzione del debito e sui deficit “strutturali” fortemente volute dai governi dei paesi “austeri” rende sì meno probabile raggirare l’aggiustamento del bilancio, ma introduce una serie di nuove incongruenze tecniche e riduce quella differenziazione nelle traiettorie di aggiustamento resa necessaria dall’elevata eterogeneità dei paesi europei, e da una maggior condivisione politica da parte dei governi, come la Commissione aveva visto bene nell’elaborare la sua proposta.

La cosa più grave è che il nuovo Psc indebolisce la Ue a fronte delle grandi sfide del futuro prossimo (transizione ecologica e digitale in primo luogo). È il segnale politico che la stagione di NgEu volge al termine e che si tornerà all’idea che “ognuno deve fare i compiti a casa propria”, mettendo a repentaglio la realizzazione degli investimenti pubblici necessari alle imponenti trasformazioni che pure fanno parte delle politiche Ue.

A causa dell’assenza di forti clausole di salvaguardia per questi investimenti in “beni comuni”, essi non troveranno spazio in bilanci pubblici nazionali vincolati dal Psc né potranno contare su un appropriato (per dimensione e possibilità d’uso) bilancio comune europeo. Entreranno in conflitto con altre esigenze di spesa, accentuando lo scontro tra interessi europei e interessi nazionali, come proprio il caso della Germania sta già evidenziando.

Sana dialettica

Ciò detto, la valutazione del voto del singolo gruppo parlamentare non può prescindere dal principio che a diversità di ruolo politico segue diversità di responsabilità. Dunque, per quanto riguarda “gli italiani” non ha senso fare di tutta l’erba un fascio. Siccome il testo del Psc messo ai voti non era la proposta della Commissione (né quindi del commissario all’Economia Paolo Gentiloni), che è espressione della maggioranza Ursula, ma è (in massima parte) il risultato della trattativa intergovernativa, pare legittimo che un partito che sta nella maggioranza a Bruxelles mentre si trova all’opposizione in Italia adotti come metro di giudizio quanto il Psc sia lontano dalla proposta del “suo” governo europeo, che è la Commissione.

Esattamente opposta è la posizione dei partiti di governo in Italia e non a Bruxelles: questo Psc è il “loro” Psc e perciò è incoerente che loro non abbiano votato a favore.

Quindi non sono i partiti italiani in generale che han fatto fare una brutta figura all’Italia, ma i partiti che esprimono e sostengono il governo italiano. L’idea che il Pd e gli altri partiti di opposizione debbano comportarsi come se fossero al governo, anche quando non lo sono, non ha portato loro bene in passato, e forse non giova neanche a una sana dialettica democratica.

La quale, a nostro avviso, prevede che il dissenso si debba esprimere liberamente nella fase di formazione delle decisioni parlamentari, mentre ci si dovrebbe poi attenere alle deliberazioni una volta che siano state prese. Il tempo ci dirà quali forze politiche lo faranno e quali no.

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