Tra le misure all’interno del disegno di legge di bilancio, ci sono alcuni interventi sulla sanità. La premier Giorgia Meloni ha sottolineato come la spesa sanitaria a 136 miliardi nel 2024 sia ai livelli più alti di sempre (vero, ma bisognerebbe considerare il dato in percentuale al Pil, che invece non lo è) e che per il prossimo anno verranno stanziati ulteriori 3 miliardi nel servizio sanitario con un obiettivo specifico: accorciare le liste d’attesa.

La domanda di servizi sanitari in continua crescita e una sostanziale stabilità dell’offerta da parte del pubblico hanno infatti aumentato di molto l’attesa prevista per gli esami. Per una semplice ecografia, per esempio, è possibile dover aspettare anche più di un anno.

È un problema che esiste da tempo e che ha portato l’Italia a essere uno dei paesi con la più alta spesa sanitaria out-of-pocket, ossia non coperta dall’assicurazione, ma pagata direttamente dal contribuente (in media nel 2022 è stata pari a 920 dollari a persona). Il motivo è semplice: se le liste d’attese sono troppo lunghe nel pubblico, i pazienti si rivolgono alle strutture private.

La soluzione Meloni

I tre miliardi stanziati dal governo si concentrano su due interventi specifici: il rinnovo dei contratti nel settore della sanità (con 2,3 miliardi stanziati) e la detassazione degli straordinari e dei premi di risultato legati alla riduzione delle liste d’attesa (per poco meno di 600 milioni). In entrambi i casi, quindi, un aumento delle retribuzioni.

La logica seguita per questi provvedimenti sembra basata sui modelli classici dell’economia del lavoro, come quella dei salari di efficienza: se vogliamo aumentare la produttività dei lavoratori, aumentiamo il loro stipendio (ossia rinnoviamo i contratti collettivi). La logica dietro alla detassazione degli straordinari sembra invece rifarsi a un modello di domanda e offerta: se vogliamo spingere i medici e gli infermieri a lavorare di più (aumento dell’offerta), offriamo loro più soldi per incentivarli a fare straordinari (aumento dello stipendio, a parità di quantità domandata).

Le motivazioni che giustificano queste misure lasciano perplessi. La scelta di dove, quanto e come lavorare non dipende solo dalla retribuzione (che comunque ha un ruolo molto importante, per quanto si cerchi spesso di sminuirlo), ma da molti altri fattori, come la quantità di tempo libero a disposizione, l’accesso a benefit aziendali o lo stress sul posto di lavoro.

La soluzione del governo non sembra considerare affatto questi fattori, anzi: ha tra gli obiettivi quello di comprimere il tempo libero a disposizione di medici e infermieri in modo che ne dedichino una parte maggiore al lavoro. I racconti di burnout nei pronto soccorsi e nelle strutture ospedaliere in generale negli ultimi anni suggeriscono che l’approccio da utilizzare non possa essere solo quello economico. Anche perché il personale ospedaliero, per quanto pagato meno rispetto a quanto probabilmente meriterebbe, non riceve una retribuzione bassa: un incentivo sulla retribuzione funziona soprattutto su chi guadagna poco, ma questo non è il caso per chi lavora in ospedale, soprattutto se medico.

Non è una questione di soldi

Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, da medico, è convinto che la maggior parte dei suoi colleghi «vuole lavorare di più ed essere meglio retribuita», ma se il problema fossero solo i soldi, un dottore potrebbe semplicemente dimettersi e andare a lavorare a gettone. È difficile pensare che si possa fare la differenza con un aumento di poche centinaia di euro lorde al mese (il ministro Schillaci parla di mille, ma i 2,3 miliardi miliardi di euro stanziati per i rinnovi dei contratti non sembrano abbastanza per raggiungere quella cifra).

Il discorso è un po’ diverso per gli infermieri, che vengono pagati meno. Anche nel loro caso, però, è davvero difficile pensare che decidano di lavorare ancora di più rispetto allo stress e agli orari massacranti di oggi solo per guadagnare qualcosa in più con gli straordinari.

Come provare a risolvere il problema, quindi? Aumentando l’offerta di lavoro, ossia il numero di medici e infermieri a disposizione. Non è una soluzione semplice e immediata, ma ci si può lavorare, per esempio aumentando il numero di posti a disposizione nelle facoltà di medicina e nei corsi di specializzazione. Sono soluzioni che richiedono anni per avere un ritorno, ma che da anni si sarebbero dovute implementare (e questa mancanza non è certo colpa solo di Meloni).

Per tamponare il problema nel breve periodo, invece, una possibile soluzione può essere l’immigrazione: attirare medici già formati da dentro e fuori l’Unione europea permetterebbe un aumento immediato o quasi della forza lavoro negli ospedali, con effetti positivi sull’organizzazione. Certo, questo personale andrebbe formato e dovrebbe affrontare una transizione, ma è più semplice insegnare l’italiano a uno straniero che la medicina a un neodiplomato.

Di questo tipo di soluzioni non c’è traccia nella manovra, ma il Governo attuale segue la linea degli ultimi decenni: l’unica cosa importante è che la spesa non scenda, in modo da non avere contraccolpi politici, non importa poi se il modo in cui si spende non è efficace.

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