Paolo Gentiloni se l’è cavata con una battuta. «Abbiamo unito la politica italiana», ha dichiarato ieri il commissario agli Affari economici, pochi minuti dopo il via libera finale del Parlamento europeo al Patto di Stabilità.

Al netto dell’ironia, resta però l’imbarazzo per un voto che vede di fatto allineati tutti i partiti italiani, destra sinistra e centro, nel respingere l’accordo raggiunto a dicembre dai rappresentanti dei governi nazionali, tra cui anche Giancarlo Giorgetti. E così, se da una parte l’intera maggioranza ha lasciato solo il suo ministro, con Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia che si sono astenuti, altrettanto ha fatto il Pd, il partito di Gentiloni. Voto contrario, invece, dai cinque rappresentanti del gruppo Cinque stelle.

La nuova versione del Patto è arrivata con l’approvazione di tre diversi testi, che hanno raccolto fino a 367 voti favorevoli, con una sessantina di astensioni e un massimo di 166 contrari.

Il segnale politico che arriva dall’Italia è chiaro: a poche settimane dalle elezioni di giugno nessun partito vuol mettere la firma su un insieme di regole che si tradurranno in una nuova stretta sui conti pubblici.

Il compromesso raggiunto a dicembre dopo lunghi e faticosissimi negoziati, fin da subito era apparso difficile da digerire per la maggioranza di governo, impegnata da mesi in un forcing propagandistico per la difesa degli interessi italiani contro il rigore imposto dall’Europa.

A cose fatte, però, Giorgia Meloni si era prontamente allineata. Un accordo «di buon senso», così la presidente del Consiglio aveva salutato il nuovo Patto. Mentre Giorgetti, pur riconoscendo dal negoziato erano uscite «alcune cose positive e altre meno», si era comunque intestato il risultato finale. «Le nuove regole sono meno pesanti di quelle che avremmo ottenuto se avessimo messo il veto alla Capital Fracassa», commentò il ministro dell’Economia.

Voltafaccia

Adesso, alla prova del voto in Parlamento, è arrivato il voltafaccia, con l’astensione di Fratelli d’Italia e Lega. Sulla stessa linea anche Forza Italia, che si è chiamata fuori dalla coalizione di centrosinistra, la maggioranza Ursula, di cui fa parte e che ha dato la spinta decisiva per l’approvazione del Patto. Dalla Lega ora arriva l’auspicio, espresso in una nota, che “con una nuova maggioranza in Europa, nei prossimi anni sarà possibile apportare quelle modifiche necessarie verso una maggiore flessibilità”. Intanto, però, l’astensione dei partiti di governo al Parlamento europeo viene interpretata dall’opposizione come una sfiducia di fatto a Giorgetti, di cui i Cinque Stelle chiedono le dimissioni. Difficile che arrivino, ma di certo il voto della maggioranza non rafforza la credibilità in Europa del ministro dell’Economia.

I Dem, come detto, si sono astenuti, in dissenso rispetto al voto favorevole di gran parte dei Socialisti e Democratici. «Il testo uscito dal negoziato con il Consiglio europeo era eccessivamente peggiorativo rispetto alla proposta originaria di Gentiloni, che abbiamo sostenuto», spiega Brando Benifei, capodelegazione del Pd al Parlamento europeo.

A dicembre, all’indomani dell’intesa sulle nuove regole di bilancio, da Elly Schlein era arrivata una bocciatura secca del testo, liquidato come «un cattivo compromesso, un accordo che farà molto male all’Italia». Una posizione che ieri si è tradotta in un’astensione, senza arrivare al voto contrario espresso invece dai Cinque Stelle.

«Il premio facce di bronzo - attacca Giuseppe Conte - va a Meloni e soci, che dopo aver urlato contro l’Europa in campagna elettorale, «nei mesi scorsi hanno dato l’ok a questo accordo che danneggia l’Italia».

Tagli in arrivo

Archiviato il voto del Parlamento, e le polemiche conseguenti, per il governo arriva il compito di gran lunga più complicato. A giugno, la Commissione sottoporrà a Roma la cosiddetta traiettoria tecnica per l’aggiustamento dei conti. Entro settembre andrà concordato con Bruxelles il piano di rientro elaborato in base alle nuove regole del Patto di stabilità, che prevedono la riduzione media annua dell’1 per cento del rapporto tra debito e Pil nei quattro (o sette) anni della durata del piano stesso.

Anche il deficit dovrà tendere verso un livello del 3 per cento del Pil (l’Italia nel 2023 è arrivata al 7,4 per cento) anche se è previsto un ulteriore margine di salvaguardia, fissato all’1,5 per cento con l’obiettivo di fornire maggiori margini di manovra in bilancio in caso di choc economici.

Ebbene, secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, le nuove regole imporranno risparmi annui pari allo 0,5-0,6 per cento del Pil.

Siamo quindi nell’ordine degli 11-14 miliardi di tagli per ciascuno dei sette anni del piano di rientro. A questi vanno poi aggiunti i costi di misure come il taglio del cuneo o la rimodulazione dell’Irpef, che superano i 15 miliardi annui. In totale fanno circa 30 miliardi. Un arrampicata ad alto rischio politico.

© Riproduzione riservata