In Italia l’obiezione di coscienza rende sempre più difficile accedere al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Linda Feki è una musicista e producer ed è conosciuta sotto l’acronimo LNDFK. Nel giorno delle elezioni europee ha deciso di condividere la sua esperienza sui social, per denunciare la violenza psicologica, e non solo, subita nel suo percorso per poter abortire, e invitare gli elettori a non astenersi dal voto. «È stata un’esperienza drammatica e violenta, mi sono sentita umiliata. Per questo ho voluto raccontare cosa mi era successo», ha riferito in un’intervista al Corriere della Sera. 

Tre mesi fa ha deciso di abortire e si è rivolta all’ospedale San Paolo di Napoli, città in cui vive. Un ginecologo la visita, senza nemmeno chiedere il suo nome, né un documento di identità per capire se fosse o meno minorenne. Ma l’unica informazione che le viene chiesta è se avesse «un partner e che lavoro facesse». Sull’ecografia effettuata dal medico del San Paolo risulta incinta di dieci settimane, mentre secondo i calcoli di Feki non è possibile che il periodo superi le otto settimane. 

«Ha aggiunto all’ecografia due settimane a quelle effettive, a voce ne ha aggiunte due e per iscritto ne ha aggiunta un’altra ancora, invitandomi a riflettere sul fatto che essendo arrivati così avanti significava che volessimo tenerlo», racconta la musicista sui social. 

Alla perplessità della donna, il ginecologo risponde facendo «intendere che forse stavo confondendo il partner, o che avevo calcolato male perché “lo dice la macchina” non lui», prosegue il post. 

Feki racconta di essersi quindi rivolta a un ginecologo privato che le ha confermato l’errore nell’ecografia del San Paolo, dovuto ai parametri errati inseriti nell’apparecchio, «anche per far apparire l’immagine del feto più grande di quanto fosse in realtà», scrive nel post su Instagram, in cui mostra le due foto dell’ecografia a confronto. 

L’operazione

L’ospedale Cardarelli è la seconda struttura pubblica a cui si rivolge e, una volta raggiunto, scopre che è possibile accedere al servizio solo il mercoledì «perché negli altri giorni ci sono solo medici obiettori», racconta la donna, che non ha potuto usufruire dell’aborto farmacologico a causa dei tempi di attesa.

Le dicono dunque che deve subire un’operazione chirurgica con anestesia totale. Assunta la pillola preoperatoria, spiega Feki, ha vomitato: «In bagno mancava la carta, ho letteralmente dovuto chiamare un’infermiera con il vomito in bocca aspettando di essere aiutata», scrive, aggiungendo che dopo circa un’ora il medico le ha chiesto se volesse assumere un’altra pastiglia. «A me», dice la donna, suggerendo che dovrebbe spettare al medico decidere se somministrare o meno una terapia, non alla paziente. 

È stata Feki, tre ore dopo, a comunicare al personale ospedaliero di essere pronta a sottoporsi all’intervento, evidenziando che nessuno è andato a chiamarla in vista dell’operazione. Non le è stato garantito di avere nessuno accanto. E aggiunge, nell’intervista al Corriere: «Mi chiedevo come mai non fossero previsti degli antidolorifici e a oggi mi chiedo se questo non fosse una sorta di punizione».

Infine, conclude la musicista, ha chiesto all’infermiera di staccarle la flebo dopo l’intervento, ma le ha risposto «sono obiettrice», andando via. 

Diritto negato

I medici obiettori di coscienza sono circa 7 su 10. È un dato nazionale, che però in alcune regioni arriva quasi al 100 per cento. Questo significa che molte donne per poter accedere al diritto devono andare fuori regione, oppure, anche se non sono costrette a spostarsi lontane da casa, sono poi sempre più frequenti le esperienze di violenza psicologica all’interno degli ospedali nei confronti di chi vuole esercitare un diritto che sarebbe garantito dalla legge

E, infatti, dice Feki al Corriere, «alla fine dell’operazione il personale medico ci ha tenuto a ribadire il messaggio secondo cui dal momento che la pratica era risultata così dolorosa ci avrei dovuto pensare bene la prossima volta e stare attenta». Un’esperienza «brutale», la definisce nell’intervista, «hanno fatto di tutto per farmi sentire in colpa e rendere scoraggiante l’esperienza». 

La musicista mette in luce come questo trattamento, oltre che violento, sia discriminatorio, perché non tutti possono permettersi di avere un secondo parere, o un supporto psicologico, o ancora avere le informazioni nella propria lingua. 

Feki ha deciso di raccontare la sua storia per denunciare pubblicamente, per sé e per tutte le donne che «sono state ostacolate e umiliate per aver deciso di esercitare un proprio diritto», racconta infine al Corriere. Il post condiviso è stata un’occasione per spingere altre donne a raccontare la loro esperienza, dimostrando che non si tratta di un’eccezione. 

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