C’è uno spiraglio di luce nella storia di Alaji Diouf, il 34enne senegalese che ha scontato la sua pena dopo la condanna in via definitiva a otto anni di reclusione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in forma pluriaggravata. Nel 2015 Diouf venne indicato, da un migrante che viaggiava su un gommone diverso dal suo, come scafista dell’imbarcazione su cui si trovavano oltre cento persone e in cui morirono per asfissia sette donne e un uomo. La vicenda si concluse, appunto, con la sentenza di condanna della Corte d’appello di Taranto, nonostante «l’imputato – si legge nelle motivazioni – non è l’organizzatore del viaggio (…) bensì un disgraziato che ha accettato tale compito per fuggire dalla condizione in cui versava in patria. Dunque scafista improvvisato».

Scafista per sbaglio, secondo la sentenza che però spedì comunque Alaji Diouf direttamente in carcere. Il giovane, oggi in libertà, giura di non aver mai toccato quel timone. Motivo per cui l’avvocato Francesco Romeo, insieme all’associazione Baobab Experience, sta cercando di far riaprire il caso e chiedere la revisione del processo davanti alla Corte d’appello di Potenza.

«Siamo alla ricerca di nuovi elementi di prova, non valutati nei processi – spiega il legale a Domani –. Abbiamo chiesto la lista degli altri passeggeri che si trovavano sul gommone su cui viaggiava Alaji alla questura e alla prefettura di Taranto. A luglio 2023 – continua Romeo – la prefettura ci ha risposto che ci avrebbe fornito la lista, ma solo dopo aver concordato le modalità di consegna con il Garante della privacy. Dopo un lungo silenzio e una nuova richiesta, a gennaio 2024 sempre la prefettura di Taranto ci ha tuttavia comunicato di non trovare più questi elenchi».

Il “no” non ha fermato l’avvocato, l’associazione a sostegno degli ultimi e Alaji Diouf nella ricerca della verità. Dopo un post sui social, in cui veniva raccontata tutta la vicenda del giovane migrante, partito quasi dieci anni fa dalle coste libiche per trovare un futuro in Italia, un passo avanti, come si diceva, è stato compiuto.

«Ci ha scritto – dice ancora Francesco Romeo – una persona, a sua volta in contatto con un migrante a bordo del gommone di Alaji. Cercheremo così di risalire a tutti gli altri passeggeri. E poi stiamo studiando –  conclude l’avvocato – i tempi di viaggio, le posizioni dei gommoni, tra loro tutti distanti in termini di chilometri, le condizioni del mare e meteo all’arrivo dei barconi sulle coste italiane».

«Lo Stato ha fallito»

«Ho conosciuto Alaji Diouf oltre un anno fa e guardandolo negli occhi ho visto tutto il fallimento dello Stato», spiega sempre a questo giornale la senatrice Ilaria Cucchi che pure si batte per la riapertura del caso.

«La storia di questo giovane è simile per alcuni aspetti a quella raccontata da Matteo Garrone in Io Capitano, che tuttavia non prende in considerazione ciò che avviene dopo lo sbarco: un migrante innocente ogni 300 persone sbarcate viene incarcerato».

Anche la sottosegretaria leghista alla Cultura Lucia Borgonzoni aveva incrociato le dita per la partecipazione di “Io Capitano” agli Oscar 2024, ma in realtà secondo Cucchi «quello che questo Paese dà a chi arriva è il peggio di sé».

Capitani coraggiosi

Da qui la campagna di Baobab Experience, “Capitani Coraggiosi”, che mira, oltre alla revisione del processo per Alaji – sarebbe la prima volta in Italia per un migrante –, a chiedere l’abrogazione dell’articolo 12 del Testo unico sull’Immigrazione, a firma Turco-Napolitano, nonché datato 1998.

«La nostra è una vera e propria battaglia – spiega Alice Basiglini, vicepresidente di Baobab –. Non è possibile che chi, per esempio, semplicemente sposta una tanica di benzina da una parte all’altra dell’imbarcazione, tiene in mano una bussola o salva vite umane rischia fino a trent’anni di reclusione: questa norma è un abominio giuridico».

A Casetta Rossa, nel cuore di Roma, martedì 16 aprile, a raccontare la sua storia è stato proprio Alaji Diouf. «In carcere, senza parlare o scrivere in italiano, mi sono sentito morto. Al buio, nella mia cella, ho pensato a mia madre, con cui sono riuscito a mettermi in contatto solo dopo i primi due anni di reclusione; ho pensato anche a tanti modi per poter uscire da quella situazione, ma non ne ho trovati. L’unico modo era farla finita. Mi ha salvato il mio compagno di carcere».

Oggi Alaji Diouf ha una stanza tutta per sé e lavora a Roma come giardiniere. «Sono libero – dice a Domani – ma lo sarò di più quando riuscirò a fare luce veramente sulla mia storia, su quello che è successo. Solo allora l’Italia potrà davvero essere – conclude – la mia casa lontano da casa».

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