Ogni volta che devo scrivere di beni confiscati alle mafie penso, ed è inevitabile, al fallimento dello stato. Penso a quell’immenso patrimonio che non è più nelle mani dei boss e che comunque marcisce, si disperde, evapora a causa di una perversa burocrazia e del perenne disinteresse della politica. Penso alla giudice Silvana Saguto e alla sua corte dei miracoli palermitana, l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale oggi in carcere per corruzione mentre molti dei suoi complici sono ancora a spasso dopo avere spolpato sino all’osso floride aziende di mafiosi o presunti tali.

Penso a quel campione dell’antimafia che era Antonello Montante, l’ex vicepresidente di Confindustria con delega alla Legalità e condannato in appello per associazione a delinquere, sponsorizzato al presidente del Consiglio Renzi per entrare proprio nel consiglio di amministrazione dell’Agenzia nazionale che gestisce i patrimoni criminali sequestrati. Come far entrare un vampiro in un deposito di sangue.

E penso, naturalmente, al novanta e passa per cento delle imprese che quando vengono in possesso statale sono immancabilmente destinate alla rovina. È un paradosso tutto italiano, un pezzo di stato efficientissimo che individua e strappa la roba ai capi bastone, e un altro pezzo di stato che non sa nemmeno esattamente cosa è diventato suo.

Però, anche in questo mondo incoerente, diciamo così per non spingerci oltre, a volte le sorprese non mancano. Ne ho trovata una a Lamezia Terme durante i giorni di Trame, il festival dei libri sulle mafie che da tredici anni resiste in terra di Calabria. Lì, nelle sale del museo archeologico, hanno trovato ospitalità quarantaquattro quadri sottratti in due distinte operazioni antimafia a personaggi che li avevano acquistati con denaro di provenienza illecita. Proprio una bella sorpresa vedere opere di straordinario valore uscire dai polverosi sotterranei dove erano state dimenticate, ripescate nel pozzo senza fondo dove erano scivolate per colpa – nel migliore dei casi – di una macchinosa e infernale giustizia. Alla comunità si può ridare un palazzo, una casa, si può ridare una vigna, un uliveto o un campo coltivato a frumento, ma si può ridare anche la bellezza che quelli là hanno portato via, rubato.

“L’arte restituita” è il titolo della mostra che raccoglie dipinti del Novecento che furono di proprietà di fiancheggiatori della Banda della Magliana come Gennaro Mokbel, o di imprenditori invischiati con le cosche reggine come il “re dei videopoker” Gioacchino Campolo. Quadri di Migneco e di Ligabue, di Franz Borghese e di Bruno Caruso, di Pietro Arrigoni e Max Marra. C’è anche un De Chirico. E un falso Morandi, esibito con vanto per dimostrare che anche un truffatore può essere truffato.

È una mostra unica in Italia e probabilmente anche nel mondo, voluta dal presidente della Fondazione Trame Nuccio Iovene e dal presidente dell’associazione culturale MetaMorfosi Pietro Folena, una combinazione – arte contro le mafie – che scavalca luoghi comuni e ci fa capire che la mappa dei beni mafiosi non è solo un elenco di alberghi a cinque stelle o ville hollywoodiane in “stile Scarface“, appartamenti, terreni, sale gioco, garage, centri benessere e supermercati.

Resta ovviamente apertissima la questione del tesoro delle mafie che va in malora sotto il controllo dello stato. Tante, troppe chiacchiere mentre si è infiammato il dibattito sul “doppio binario” per i reati di mafia, la non colpevolezza decretata da un tribunale per un imputato e la colpevolezza certificata dalla speciale sezione delle Misure di Prevenzione per lo stesso imputato.

Sarebbe meglio che qualcuno se ne occupasse seriamente prima che, con i tempi che corrono, la famosa Rognoni-La Torre del 1982 sull’associazione mafiosa e sui beni sequestrati venga fatta a pezzi da qualche “garantista” molto interessato che ciò avvenga. La materia è complicata, ci sono prudenze e ci sono paure. E ho la sensazione che questa guerra dello stato intorno ai soldi delle mafie sia già stata persa.

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