Un personaggio politico che si candida a diventare sindaco di Palermo ha il dovere di informare gli elettori dei suoi legami familiari con esponenti mafiosi o può far finta di niente? È giusto rendere pubblica un'ingombrante parentela - sebbene acquisita - o può tacere anche se punta ad amministrare la capitale della Sicilia? Il “caso” non è ipotetico né teorico, ma estremamente concreto e attuale.

L'ex magnifico rettore dell'università di Palermo Roberto Lagalla, trasportato da tutto il centro destra verso la conquista di Palazzo delle Aquile, avrebbe dovuto dire o non dire che fra i suoi parenti ci sono i Ferro di Canicattì, la più potente e ricca cosca del centro dell'isola?

È ovvio che la responsabilità penale è individuale e che dell'appartenenza a una società criminale e segreta come Cosa Nostra ne deve rispondere solo il diretto interessato, ma si sa che la mafia è fatta anche di rapporti di sangue, di incroci familiari, vincoli. Insomma, Roberto Lagalla avrebbe fatto meglio a svelare, ad inizio di campagna elettorale, che sua moglie Maria Paola è la nipote di Antonio Ferro, quello che fu il patriarca di un clan di Canicattì legato da una parte ai Corleonesi di Bernardo Provenzano e dall'altra ai catanesi di Benedetto Santapaola?

Per la precisione figlia di Giuseppe Ferro, ortopedico, primario dell'ospedale San Giovanni Di Dio, fratello del principale imputato della prima grande inchiesta giudiziaria sulla mafia agrigentina degli Anni Ottanta, considerato il capo dei capi della consorteria. «Non ho mai avuto rapporti», dice Lagalla a Domani nell’intervista che pubblichiamo integralmente.

Dinastia Ferro

Quella dei Ferro non è una famiglia qualunque, è aristocrazia criminale, entrata per la prima volta nelle investigazioni del giudice Rosario Livatino, anche lui originario e abitante a Canicattì e proprio a qualche decina di metri dalla casa di Antonio Ferro, in un procedimento per misure di prevenzione fra la primavera e l'estate del 1990.

Nel settembre di quell'anno il giudice fu poi ucciso, sulla statale Caltanissetta-Agrigento a una decina di chilometri dalla Valle dei Templi. Nei mesi successivi si è aperto il primo processo alla mafia agrigentina dopo decenni di silenzio (lì, non si celebrava un dibattimento di mafia dall'era fascista, da 46 anni), processo classificato, e non a caso, come ”Antonio Ferro +43”.

Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: sia Roberto Lagalla che sua moglie Maria Paola Ferro sono totalmente estranei a qualunque vicenda di mafia, la domanda però è sempre quella: è opportuno o non è opportuno che un candidato sindaco di Palermo dichiari certi intrecci familiari? Soprattutto quando il candidato sindaco di Palermo, qualche giorno fa, ha testualmente dichiarato: «Con me la mafia e i suoi complici non entreranno mai in Municipio». E poi perché la campagna elettorale per le elezioni del primo cittadino dopo l'era Orlando - si voterà il prossimo 12 giugno - si sta infuocando sempre di più intorno alla questione mafia.

A Palermo si è scatenato il putiferio dopo il sostegno dato a Lagalla dall'ex governatore Salvatore ”Totò” Cuffaro e gli endorsement del senatore Marcello Dell'Utri, due condannati per reati mafia. Peraltro giovedì 19 maggio Lagalla era in prima fila al Multisala di Palermo alla presentazione della "Nuova Democrazia Cristiana” di Cuffaro, i due stretti in un abbraccio e intorno una folla di più di mille persone.

Palermo divisa

Il primo ad accendere i fuochi è stato l'ex procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio, ora procuratore generale a Cagliari: «Sono indignato che persone condannate per mafia tornino a fare politica». Poi Alfredo Morvillo, ex procuratore capo di Trapani e fratello di Francesca, la magistrata moglie di Giovanni Falcone uccisa a Capaci il 23 maggio del 1992: «La politica è in mano a condannati per mafia».

Infine Maria Falcone, sorella del giudice: «I candidati rifiutino il supporto di personaggi impresentabili». I due diretti interessati, Cuffaro e Dell'utri, scontata entrambi la pena, rivendicano il pieno diritto di esprimere liberamente le loro idee politiche e appoggiare chiunque. A rilanciare la querelle è intervenuto anche Giovanni Fiandaca, giurista, studioso di diritto penale. Si è schIerato con decisione dalla loro parte. Prima così: «Cuffaro e Dell'Utri hanno tutta la libertà, se lo ritengono, di continuare a impegnarsi politicamente. E sarebbe ingiusto e incostituzionale pretendere di criticarli per il semplice fatto che da ex condannati, per reati di contiguità mafiosa, intendono continuare a esercitare un ruolo politico attivo, eventualmente condizionandole dinamiche politico elettorali». E poi così: «Se il professore Lagalla accetta quel sostegno non vuol dire che stia accettando di difendere interessi oscuri, questo è un modo giustizialista e populista di intendere».

Alla fine - per il momento naturalmente - ha detto la sua anche il candidato sindaco in mezzo alla bufera e sul trampolino di lancio per entrare da trionfatore al municipio: «Io sono un uomo libero». E ha sbandierato ai quattro venti che «il mio programma prevede una parte importante di interventi comunali a tutela della trasparenza e della legalità» annunciando, insieme alla testimone di giustizia Valeria Grasso, «un organismo indipendente di contrasto alla corruzione e all'infiltrazione mafiosa nella pubblica amministrazione».

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