Milan-Liverpool questa sera, Manchester City-Inter domani, Atalanta-Arsenal giovedì: la Champions League che ricomincia oggi, più ricca e astrusa che mai, inizia con una triplice sfida Italia-Inghilterra nel giro di tre giorni. Ma è solo l’inizio, perché essendo cinque le squadre italiane – la Juventus debutterà nel tardo pomeriggio con gli olandesi del Psv, il Bologna domani contro lo Shakhtar – e quattro le inglesi, al trittico attuale seguiranno altre cinque partite che metteranno di fronte club di A e club di Premier di qui alla sesta settimana della competizione, vale a dire le due trasferte dei rossoblù in casa di Liverpool e Aston Villa (seconda e terza giornata), Inter-Arsenal (quarta), quindi le due gare dei bianconeri di Motta a Birmingham e in casa con il Manchester City (quinta e sesta).

Tutti insieme nello stesso campionato, nella stessa classifica, noi e loro, loro e noi. La scorsa stagione in Champions ci furono solo due sfide tra Milan e Newcastle, stavolta l’immagine proiettata dice che sono tutti lì, e già questo lascia supporre che lo spazio per Europa League e Conference, quello insomma per la media borghesia del nostro pallone che lì aveva trovato una sua dimensione tutto sommato vincente, sarà sempre più sacrificato. La Champions si espande per questa prima giornata anche al giovedì, una piccola gentrificazione del calcio europeo d’élite che, Superlega o meno, tende a marginalizzare chi ha meno da spendere.

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Ai margini, dal punto di vista calcistico, è laddove si tende a considerare il nostro calcio di club, soprattutto nel paragone con una Premier League che, in effetti, per quanto concerne diversi dati economici è su un altro pianeta, anche se poi la corda è stata tirata notevolmente e ora si comincia a vedere qualche effetto, dalle plusvalenze incrociate che ormai piacciono anche Oltremanica al fair play finanziario interno che ha costretto alcuni club a rallentare sul mercato e altri a scontare qualche punto di penalizzazione (la scorsa stagione furono 8 per l’Everton e 4 per il Nottingham Forest), senza contare la spada di Damocle che pende sul Manchester City, accusato dalla Premier stessa, per il periodo 2013-2018, di oltre un centinaio di irregolarità finanziarie e che proprio ieri ha visto l’inizio del procedimento con la prima udienza. Il verdetto arriverà nel 2025, forse a primavera, nella fase cruciale di Premier e Champions. Vale tutto, anche se poi, a voler fare sul serio, resterebbe davvero poco, e cane non mangia cane, che in inglese non si traduce letteralmente ma con un più evocativo «honour among thieves».

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Che cos’hanno in più di noi

Sul campo, però, sembra un altro sport, o almeno è ciò che ci raccontiamo, per quanto venga difficile capire dove risiedano le radici di quell’intensità e di quel ritmo che riconosciamo in Premier ma non in A, nonostante poi qualche scontro diretto italo-inglese – la finale City-Inter di due anni fa, ad esempio – racconti qualcosa di diverso. Non è un concetto fisico, ma di percezione del calcio: corsa, rapidità, pressing, ribaltamenti di fronte, e nella difficoltà di basarsi su un parametro oggettivo (ma poter disporre di buona parte dei migliori calciatori del pianeta incide), forse una chiave l’ha fornita, qualche giorno fa, The Athletic. Lo ha fatto il giornalista Greg O’Keeffe, stroncando Bournemouth-Chelsea, definita «la partita più maleducata di sempre» della Premier League; il motivo? 14 ammonizioni e 25 falli, «innumerevoli proteste a ogni fischio dell’arbitro», per una gara che non è parsa in realtà cattiva al punto da meritare così tante sanzioni, visto che sotto accusa è finito soprattutto l’arbitro Taylor.

Allora sarà questo il male, il gioco troppo spezzettato? 25 falli, in A, sono normalità. Anche solo restando alle partite della quarta giornata (togliendo dal novero le due di ieri), la media è stata di quasi 27 a gara, con tre incontri oltre quota 30. Però tra queste c’è Atalanta-Fiorentina, sfida tra due squadre il cui ritmo e stile suggeriscono qualcosa di britannico, ma 31 falli (il totale della partita) in Premier sarebbero visti malissimo. In fondo, Guardiola disse che giocare contro l’Atalanta era «come andare dal dentista» e, pur con tutte le più professionali e amorevoli attenzioni, su quella sedia non è che arrivino carezze. Non è un caso se, in queste prime settimane dei cinque maggiori campionati europei, tra le venti squadre più fallose una sola sia inglese (il Wolverhampton) e cinque italiane, ma dieci sono spagnole, e siccome il divario con queste ultime (Real a parte), non sembra così siderale, forse allora ci stiamo avvicinando a capire quel qualcosa che c’è, ma cosa sia di preciso non si sa.

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Come stanno le spagnole

Le inglesi entusiasmano, poi però il campione in carica della Champions League è il Real Madrid, more solito, e oggi è ancora più Real, se vogliamo, con Kylian Mbappé e il brasiliano Endrick aggiunti a una batteria offensiva della quale facevano già parte Bellingham, Vinicius, Rodrygo, Güler e pure Valverde. Mbappé è Mbappé, non c’è granché da aggiungere, e sebbene il suo arrivo a parametro zero – etichetta ingannevole, considerando un bonus per la firma di 100 milioni da aggiungere allo stipendio – fosse definito da mesi, il suo acquisto da parte del Real si inserisce nel triplete dei colpi estivi del calcio spagnolo, quello che ha visto tornare al Barcellona il figliol prodigo Dani Olmo (circa 60 milioni per attivare la clausola rescissoria dal Lipsia) e l’Atlético Madrid mettere sotto contratto Julián Álvarez, costato (bonus compresi) ben oltre 80 milioni. Cifre enormi, quelle che, con la media del pollo, riflettono l’idea di un movimento in piena salute, competitivo, ricco di talento e di equilibrio.

Non esattamente. La quantità di talento che si trova nel calcio spagnolo è abbondante, è verissimo, e il sistema tutto sommato è in salute, per quanto possa esserlo un torneo che comunque ha visto calare del 10% gli introiti da diritti tv nazionali tra il precedente e l’attuale contratto. Ma di equilibrio e competitività nella Liga ce n’è ben poca, e i lamenti dei club che lottano per le briciole – anche televisive – di ciò che lasciano Real Madrid, Barcellona e Atletico restano voci nel deserto di chi si fa bello con certi risultati, dalla federazione a Tebas, e se è vero che l’oro luccica a livello di nazionali – l’estate 2024 ha portato la vittoria all’Europeo di Germania, il trionfo della Under 19 all’Europeo di categoria in Irlanda del Nord e il successo della selezione olimpica a Parigi –, è vero anche che dietro a Real, Barça e Atletico c’è poco. O, meglio, c’è il Girona, che la scorsa stagione ha interrotto il costante e continuo podio appannaggio del trio finendo terzo, dodici anni dopo il Valencia 2011-12. Ma il Girona – domani avversario del Psg – è made in Abu Dhabi, è di proprietà di City Football Group e non fa testo, perché può disporre di altri capitali e utilizzare logiche diverse rispetto, per dire, a un Siviglia, a un Betis o a un Villarreal, ma anche dei più peculiari Athletic Bilbao e Real Sociedad, i club insomma che possono solo sperare di crearsi un proprio giardino zen – come spesso ha fatto proprio il Siviglia con l’Europa League – grazie al quale la distanza coi parchi delle tre grandi possa apparire più umana.

Le altre

Il resto d’Europa? Non si va oltre un Paris Saint-Germain un po’ più defilato del solito, un album meno ricco di figurine ma magari più organico, e un Bayern Monaco che guida la fila delle cinque tedesche, unico a poter pensare di dire la propria al contrario del Borussia Dortmund, finalista pochi mesi fa ma destinato a non ripetersi, così come più di tanto non è lecito aspettarsi dal Lipsia, squadra comunque intrigante, dal Leverkusen e dallo Stoccarda. Tutte outsider, come le italiane: una consapevolezza che non esclude la possibilità, per qualcuno, di andare lontano, ma è meglio non raccontarsi favole.

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