Settant'anni fa questo giornale non esisteva. Ma se fosse esistito, un’inchiesta come questa – “Fare figli per Domani”, di cui state leggendo proprio ora la nona puntata – sarebbe stata molto diversa. Alcuni episodi sarebbero stati impossibili da scrivere, perché raccontano di cose che a quell'epoca non erano ancora state inventate, come la fecondazione assistita o il congelamento degli ovuli. Altri sarebbero stati impensabili, come quello sulle madri single per scelta o quello sui nuovi padri e la genitorialità condivisa.

E questo articolo, dedicato all’altra faccia della denatalità – e cioè alle famiglie numerose – avrebbe raccontato le storie di genitori con sei, otto, dieci figli. Perché quelle erano, all'epoca, le famiglie "numerose". Avrei potuto intervistare mia nonna, che tra il 1930 e il 1958 ebbe diciassette figli: il primo a 19 anni, l'ultima a quasi 49. Due perirono in fasce, ma fu tutto sommato fortunata: alla sua morte, alla veneranda età di 95 anni, gli altri quindici erano tutti vivi e in salute.

La famiglia italiana si è quasi dimezzata di taglia nel corso del Novecento: dai 4,5 del 1911 il numero medio di componenti, dato Istat, è sceso fino a 2,4 nel 2011. Cent'anni fa oltre una famiglia su quattro (il 28,2 per cento) era composta da sei o più persone; oggi sono soltanto l'1,2 per cento del totale. E certo negli anni Cinquanta la storia di Ramona avrebbe fatto sollevare qualche sopracciglio: cinque figli, sì, ma da tre padri diversi. Una “happy family” «ricostruita e allargata più volte», racconta lei, «in cui contro ogni pronostico siamo tutti molto uniti».

Cinque figli in una famiglia allargata

Il primo bambino di Ramona arriva a sorpresa, nel 2001, quando lei ha solo diciott’anni e il suo ragazzo ventitré. Inizialmente vivono a casa della famiglia di lui, poi affittano un appartamento e nel 2003 fanno anche un secondo figlio, stavolta pianificato. La storia finisce, ma i due restano in rapporti talmente buoni da fare addirittura le vacanze insieme, coi rispettivi nuovi partner. Nel 2009 Ramona ha un terzo figlio, ma poi la storia con quel nuovo compagno si interrompe. Nel frattempo lei fa carriera, diventa manager, e sul lavoro conosce il suo attuale marito. Ramona all’epoca ha due bimbi alle elementari e uno alla materna. Si sposano, fanno altre due figlie e aprono insieme una web agency.

Due mesi fa il primogenito di Ramona è andato a vivere da solo, ma la casa non è certo rimasta vuota. Ramona ha creato il profilo “Da tre figli in su”, che oggi su Instagram conta 7.500 follower: «Dal terzo figlio, lo garantisco, è più facile! I grandi badano ai piccoli, i piccoli si fanno coccolare dai grandi, fanno cose insieme, giocano. Le dinamiche cambiano: la gestione non ricade interamente sui genitori».

Numerosa e spaccata

I suoi quattro figli Valentina invece li ha avuti tutti, tra il 2012 e il 2022, con lo stesso uomo. Trentotto anni, foggiana, laureata in giurisprudenza, sposata, a lungo si è divisa tra il lavoro di mamma, la gestione di un negozio in franchising e il supporto all’azienda agricola del marito. Tre anni fa però, già con tre figli, ha fatto una riflessione: «Con un'attività in proprio, per quanto potessi avere dei dipendenti, tutta la mia giornata era dedicata al lavoro». Sceglie allora di cercare «un impiego diverso: un part time è la soluzione migliore».

Valentina si iscrive a vari concorsi nella pubblica amministrazione; ne vince uno per la scuola, si lancia in una formazione universitaria di un anno «tutti i weekend», e comincia a insegnare. Per il primo anno le assegnano una cattedra provvisoria in Puglia, e nel mentre nasce il suo quarto figlio. Ma quando arriva l’immissione in ruolo, sogno di ogni precario, per lei è una doccia fredda. Sede: Sarezzo, provincia di Brescia. A settecento chilometri da casa. Così da fine agosto di quest’anno la famiglia di Valentina si è spezzata. In Puglia sono rimasti i due figli maggiori, che il padre gestisce con l’aiuto dei quattro nonni. In Lombardia lei ha portato i due più piccoli. Una separazione che fa male nonché un salasso economico: «L’affitto, il nido per il piccolo, l’asilo per la bimba: ci vado in perdita. Ma è un investimento, perché questo contratto indeterminato», con i suoi orari ridotti, le permetterà una vita più «compatibile con l’essere una mamma di quattro bambini». Per il primo anno non sono ammesse richieste di trasferimento, ma dal prossimo potrebbe riuscire ad essere assegnata a una scuola nella sua regione.

Anche Roberta, ingegnera informatica, dopo vent’anni da freelance nel 2018 ha iniziato il percorso per diventare docente, e ora insegna in una scuola media. Lei di figli ne ha “solo” tre, ma in una città come Milano già sembra eroico: «Mi sento spesso dire “Che coraggio!”, a volte addirittura mi chiedono “ma sono tutti suoi?”». In linea con il trend italiano, li ha avuti piuttosto tardi – a trentasei, trentotto e quarant’anni. Il primogenito oggi ha quindici anni, la più piccola undici. Roberta è felicissima della svolta che ha dato alla sua vita, ma dallo Stato vorrebbe più attenzione alle «politiche per il lavoro delle donne. Perché la realtà è che se fai un certo tipo di carriera e tre figli, quella carriera la devi mettere da parte. Non ce la fai, da qualche parte devi togliere: o togli la famiglia delegando ad altri, o togli il lavoro. Dover fare questa scelta è la cosa peggiore». Bisogna quindi intervenire «con asili sui posti di lavoro e orari più flessibili».

L’assegno unico

E le politiche di sostegno economico? Anche quelle aiutano. Ai tempi delle tre gravidanze di Roberta non c’erano incentivi, quantomeno per le famiglie con un reddito medio-alto come la sua. Oggi percepisce dallo Stato «178 euro al mese: non influisce sul nostro bilancio, ma è comunque una buona cosa». Si tratta dell’assegno unico universale, varato dal governo Conte 2.

«I trasferimenti monetari non possono essere considerati, di per sé, il motivo che porta ad avere un figlio», scrivono gli studiosi Alessandro Rosina e Francesca Luppi in un saggio pubblicato l’anno scorso sulla Rivista delle Politiche Sociali, però «quando sono ben mirati e commisurati aiutano a ridurre, integrati con altre misure, l’incertezza nel processo decisionale di chi desidera averlo». L’assegno unico oggi viene percepito da 5,8 milioni di nuclei familiari, con un importo medio mensile di 157 euro a famiglia: «Noi complessivamente per tutti e quattro i figli ne prendiamo 1.300; per me è un contributo fondamentale» dice Valentina. Per Ramona è importante che adesso il sostegno dello Stato sia per tutti, e non solo per i lavoratori dipendenti: «A noi arrivano 1.096 euro al mese: nel calcolo contano solo quattro dei miei cinque figli, perché il grande lavora».

Ma ancor più dei soldi, spesso è il tempo il fattore determinante nel decidere se fare quel figlio in più. Daniele e Sara, per esempio, hanno fatto un bimbo nel 2013 e un altro nel 2016. «Ho sempre desiderato una famiglia numerosa» racconta lui, ma già due figli erano impegnativi con un impiego lontano da casa: «Alle mie otto ore ne aggiungevo tre di viaggio, tra andata e ritorno. Lasciavo tutto il carico su Sara, e questo mi faceva stare proprio male». Anche perché lei a sua volta ha un’attività impegnativa: gestisce, a Genova, il negozio di famiglia. «Io gli dicevo sempre: «Se cambi lavoro, pensiamo al terzo», ricorda Sara: «E io ho cambiato!» ride Daniele. Adesso lavora a un quarto d’ora da casa e si occupa molto dei figli – che otto mesi fa sono diventati tre. Attraverso il profilo Instagram “Famiglia di matti” Sara e Daniele promuovono la genitorialità condivisa: «La cosa più urgente che il governo dovrebbe fare per aiutare le famiglie numerose? Un congedo di paternità paritario».

Contribuisci anche tu alle prossime puntate di questa inchiesta sostenuta dai lettori di Domani: puoi farlo a questo link

© Riproduzione riservata