Volevamo essere lei, roja e impossibile. Facevamo tour per cantere, studiavamo il possesso palla. E basta con il catenaccio, cose da boomer, roba superata. Per qualcuno oggi siamo la Tik-Italia (lo ha scritto il New York Times), la squadra del palleggio, del dài-e-vai; e intanto lei, la Spagna, ha cambiato abito da sera. Dopo l’esordio a Euro 2024, El Paìs ha elogiato il nuovo corso delle furie rosse «senza il culto del pallone». Si può vincere lo stesso. Ed è davvero una bella novità, visto che da almeno dieci anni il calcio spagnolo viene considerato emblema del calcio by possesso palla.

Una fascinazione che ha portato l’Italia del lancio lungo e pedalare, del tutti dietro e chiusi per carità, insomma l’Italia del prima non prenderli, a lavorare su se stessa fino a cambiare, evolvere, mutare. Mutazione antropologica o inversione di tendenze è dunque questo Spagna-Italia di domani a Gelsenkirchen, secondo match dell’Europeo in Germania, una partita che rischia di tracciare un solco nelle abitudini di gioco di queste due nazionali. Non per sempre, ma fino alla prossima tentazione tattica.

Noia o bellezza?

In questi anni sul possesso palla si è detto tutto e il suo contrario, è il bello della repubblica del pallone. Ai Mondiali del 2022, in Qatar, si cominciò a parlare di fallimento del tiki-taka. La Spagna vinse contro il Costa Rica, perse contro il Giappone, pareggiò contro la Germania. La ragnatela di passaggi contro i giapponesi fu un inutile record (1.058). E poi arrivò il ct marocchino Regragui a tuonare: «La Spagna gioca un calcio noioso. Il possesso palla della squadra spagnola annoia troppo. È dannoso per il pubblico».

Il Marocco eliminò la Spagna che aveva avuto un possesso palla al 77%, quella fu una pietra tombale sul gioco labirintico degli spagnoli. Un gioco noioso, sì; che in questi anni tutti hanno però cercato di imitare, copiare, duplicare, arrangiare, acchittare. Italia compresa. Roberto Mancini, prima della sfida contro la Spagna a Euro 2020, provò a mediare: «È un calcio spagnolo, inventato da loro, che li ha portati a successi straordinari, e continuano a farlo bene. Il nostro sarà leggermente differente, siamo italiani e non possiamo diventare spagnoli all’improvviso». Ma le identità piano piano si sono assottigliate, poi a un certo punto si sono congiunte e infine, a questo Europeo, definitivamente ribaltate.

Il mondo rivoltato

Ne sono prova i dati. All’esordio contro la Croazia, la Roja di de la Fuente ha chiuso una partita sotto il 46% di possesso palla. Eresia per i seguaci del tiki-taka. Una goduria per tutti gli altri, che di quel gioco unilaterale non ne potevano più. Una percentuale così bassa di possesso non la si leggeva dalla finale dell’Europeo del 2008 vinta dagli spagnoli contro la Germania. Ecco, 136 partite dopo la Spagna non è più gelosa del pallone, adesso lo concede pure agli altri. Ora lo stile tiki-taka non è più ossessione, né un’estetica fine a se stessa. Lo ha detto anche Rodri, una delle star di questo campionato europeo: «Lo stile è quello che ti porta a vincere, né più né meno. Non capisco gli stili. Ogni rivale è diverso e gioca in modo diverso. È un errore pensare che uno stile ti porterà a vincere. Devi adattarti ai diversi momenti e rivali». Si è passati dunque dai tre secondi e pochi centesimi di gestione della palla per ogni giocatore (era successo nel 2021 contro la Svezia) ai dribbling, alle giocate individuali, ai lanci lunghi, alle verticalizzazioni, ai momenti di difesa a riccio. E così s’è arrevoltado el mundo, signori.

La duplice eresia

Cosa sia successo, però, è in fondo un mistero: il calcio prende direzioni tutte sue. E ogni epoca ha avuto la sua storia, le sue ispirazioni. Il calcio totale olandese, il catenaccio italiano, il tiki-taka spagnolo. Ma il bello è che il pallone si contamina, ci si ispira agli altri e nel farlo si innova se stessi. L’Italia che badava al sodo, che l’importante era non prenderli, adesso predica che «l’essenziale è giocare bene. Questa è l’unica strada». Lo ha detto proprio Luciano Spalletti, il ct di questa spedizione azzurra.

Passaggi corti, giocate rapide, velocità. Contro l’Albania, l’Italia ha effettuato 750 passaggi, di cui 186 nel secondo tempo. Un’enormità, a confronto di quando gli azzurri si mettevano compatti. Oggi è diverso. Anche nei momenti di maggiore pressione avversaria nessuno ha buttato via il pallone. Calafiori è simbolo di questa tranquillità, sembra un libero; Jorginho ha diretto la squadra «istruendo i difensori e i centrocampisti intorno a lui su dove passare e muoversi», ha scritto The Athletic. È stato lui, Jorginho, uno dei quattro giocatori azzurri a concludere la partita da «centurione» con più di 100 passaggi riusciti.

Il lampo di Prandelli

L’azzurro risplende, ma i suoi riflessi vengono da più lontano. La squadra che arrivò in finale a Euro 2012 già coltivava i prodromi di questo calcio, il ct era Prandelli, in cabina di regia c’era Pirlo, in attacco Cassano e Balotelli. Non proprio un tiki-taka, ma comunque un gioco corale, fluido, complesso. Ci si illuse di essere al livello della Spagna (dopo l’1-1 nel girone), ma la finale - persa 4-0 - ci fece ripiombare sulla terra.

Da ieri a oggi molte lune sono trascorse, l’influenza spagnola ha partorito magie e novità. E naturalmente accentuato la rivalità. Spagna e Italia si battagliano da sempre e in tutti gli sport. Alle Olimpiadi del 1992, nella piscina Bernat Picornell di Barcellona, il Settebello di Ratko Rudic è entrato nella leggenda della pallanuoto battendo la Spagna dopo sei tempi supplementari. Spagna-Italia è stato (è) un derby nei motori. E i confronti politico-economici tra i nostri due Paesi sono all’ordine del giorno.

Il calcio, lo sport in generale, ha materializzato questo dualismo rendendo ogni appuntamento cruciale per l’egemonia. Di pensiero o di pelota. La loro cultura calcistica era all’insegna del possesso palla, la nostra della prudenza. Qualcosa è cambiato. Anche se alla fin fine conta una sola cosa: chi vince. Il resto è polvere nel vento.

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