Di ritorno da Verona e dall’ultima edizione di Vinitaly Lorenzo Ruggeri scriveva sul Gambero Rosso che «è finita l’epoca della feroce contrapposizione tra vino naturale e convenzionale, ne è nata una nuova: la spaccatura tra vino tradizionale e dealcolato».

Difficile pensarla diversamente vista la quantità di dichiarazioni in proposito da parte di tutte le principali personalità legate al mondo produttivo. Il ministro dell’agricoltura Lollobrigida: «Facciamolo dealcolato, però non chiamiamolo vino». Lamberto Frescobaldi, trentesima generazione della storica azienda di famiglia toscana: «è un trend in crescita, che non sarebbe giusto ignorare». Francesco Zonin, dell’omonima cantina veneta: «Sarebbe sciocco non provarci, quando è stato lanciato il decaffeinato nessuno ha gridato allo scandalo, non è stato visto come un torto a chi invece vede il caffè come un booster per stare in forze, lo stesso vale per la pasta senza glutine, il latte senza lattosio e la birra analcolica».

Una discussione intorno a una tipologia i cui numeri globali sono ancora molto piccoli, ne scrivevo proprio su queste pagine a gennaio dell’anno scorso: «Un mercato in grande espansione che secondo i dati di Nielsen solo negli ultimi 12 mesi è cresciuto del 20 per cento e del 120 per cento in appena quattro anni; un dato straordinariamente piccolo se comparato a quello delle bevande alcoliche in generale, il cui mercato nel paese supera i 200 miliardi di dollari, ma che è riuscito a passare da una quota dello 0,22 per cento nel 2018 a quella dello 0,47 per cento nel 2022».

La lettera

È in questo contesto che ha fatto un certo rumore una lettera anonima pubblicata da The Drinks Business di un produttore di Bordeaux a proposito del processo necessario per dealcolare i vini, e di quanto questo non sia solo troppo dispendioso economicamente ma anche privo di una certa lungimiranza.

Una lettera scritta dopo aver partecipato a un forum sui vini senz’alcol organizzato dal prestigioso Institut des Sciences de la Vigne et du Vin: «Ho partecipato alla conferenza e ne sono uscito completamente sconvolto», ha scritto.

Per produrre un vino dealcolato sono necessarie tecnologie tanto sofisticate quanto costose: la distillazione sottovuoto consiste nel sottoporre il vino a una depressione in apposite colonne, in modo da fare evaporare l’alcool a basse temperature, a meno di 30 °C; l’osmosi inversa è un processo di filtrazione a membrana che permette di separare un determinato composto dal vino, in questo caso l’alcol etilico; la spinning cone column (Scc) permette l'evaporazione dell’alcol dal vino tramite la rotazione di coni con un processo che avviene sottovuoto. E queste sono solo alcune, mediamente al di fuori delle possibilità della grande maggioranza delle aziende vitivinicole.

Dalla sua lettera: «Non solo separare l’alcol dal vino richiede molta energia, ma comporta anche una perdita di prodotto tra il 15 e il 20 per cento, oltre a una certa quantità di residui che devono essere riciclati. Costi che si riflettono sul prodotto finale. Soprattutto è importante sottolineare quanto questi processi modifichino completamente il prodotto iniziale: tolgono aromi, struttura e volume», tutte caratteristiche che vanno poi ricercate aggiungendo al prodotto dealcolato vari tipi di ingredienti, oltre che aromi naturali.

«Come produttore mi chiedo perché dovremmo produrre vino solo per distruggerlo e poi trovare ogni possibile trucco per provare a ricostruirlo (…) Lo scopo sembrerebbe essere quello di soddisfare quei consumatori che vogliono un prodotto sano e che, al tempo stesso, ne ignorano il processo produttivo. Questi prodotti sono infatti lontani da tutti i principi su cui si basa la produzione del vino, frutto della trasformazione dello zucchero dell'uva in alcol le cui caratteristiche sono riconducibili a un vitigno, a un luogo, a un clima, alla creatività del produttore. Perché allora bere una cosa ricavata da un ex prodotto alcolico e non consumare direttamente una bevanda che non ha mai avuto nulla a che fare con la produzione di alcol?».

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