Cercava un luogo sicuro e si è ritrovata indagata in Italia, accusata di aver aiutato chi governava l’imbarcazione arrivata sulle coste calabresi il 31 dicembre. È la storia di Maysoon Majidi, attrice e regista in Iran, attivista curdo-iraniana di 27 anni, che vorrebbe richiedere protezione internazionale perché fuggita da un paese in cui è in atto una repressione sanguinaria da parte del regime. Specialmente nei confronti delle donne. Ma ora si trova in un carcere calabrese, a Castrovillari.

«Maysoon Majidi è laureata in regia teatrale e ha collaborato con diverse organizzazioni per i diritti umani», racconta Parisa Nazari di Amnesty International, anche lei attivista per i diritti umani e parte dell’unione italo iraniana “Donna, vita e libertà”. Nazari racconta Majidi come una donna che ha sempre agito per gli altri: «Ha subito torture, è riuscita a sfuggire all’arresto ed è scappata nel Kurdistan iracheno».

L’accusa che le viene mossa «è probabilmente per il suo comportamento da attivista, pronta ad aiutare chi la circonda». Per gli inquirenti la ragazza avrebbe avuto il compito di distribuire i pasti, dare da bere e mantenere la calma a bordo. Ma non avrebbe guidato materialmente l’imbarcazione, condotta invece da un cittadino turco. Nonostante ciò, l’attrice e regista si trova in custodia cautelare perché esiste, secondo i magistrati, un pericolo di fuga.

«È accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per questo le è pregiudicato il riconoscimento di protezione internazionale*», spiega il suo avvocato Luca Gagliardi. Il decreto Cutro ha reso più difficile ottenere il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

«Di fatto», precisa l’avvocato, «si ritorna a una situazione in cui la protezione è riconosciuta solo ai cittadini stranieri ritenuti degni, lo stato detentivo e un’indagine a proprio carico ne pregiudica l’ottenimento». Il rischio che correrebbe la ragazza se venisse rimpatriata sarebbe altissimo, dice il legale: «Potrebbe costarle la vita e per il nostro sistema giudiziario è inaccettabile».

In quanto rifugiata politica, dovrebbe essere detenuta con adeguate forme di protezione, mentre è detenuta fra le persone comuni, con il rischio di subire violenze per la sua storia e la sua etnia, evidenzia Gagliardi. Majidi, con la modifica introdotta dal decreto dopo la strage di Cutro, rischia una pena da sei a sedici anni e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. Gagliardi, con la Camera penale di Trani, sta lavorando per porre la questione sulla costituzionalità della norma.

Il viaggio

Majidi è fuggita con il fratello da un paese in cui le autorità esercitano una forte repressione sulla società civile, scesa in piazza dopo la morte di Jina Mahsa Amini, la ragazza arrestata dalla “polizia morale”. Anche lei faceva parte della minoranza etnica, religiosa e linguistica curda, che subisce oppressioni sistematiche. «In Iran le donne curde subiscono una doppia oppressione, in quanto curde e in quanto donne», ha scritto l’ong Sea Watch.

Nella sua provincia sono stati giustiziati quattro ragazzi che svolgevano attività come la sua. «C’è una parte del mondo che continua a soffocare la libertà e fa una battaglia ideologica contro le donne», avverte Shady Alizadeh, avvocata nel pool di difesa di Maysoon e attivista nel movimento. «Le persone prese dalla disperazione decidono di intraprendere il viaggio, rischiando la propria vita, perché senza alternative», spiega.

È questa la realtà da cui l’attrice e regista curdo-iraniana è scappata con il fratello, per tutelare la propria libertà e la propria vita. Sono saliti a bordo del veliero che, salpato dalle coste turche, dopo cinque giorni di navigazione si è incagliato a nord di Crotone. Lì è intervenuta la guardia di finanza, che ha portato in salvo le 77 persone a bordo.

I magistrati considerano altamente probabile la partecipazione di Majidi e del cittadino turco «in un’organizzazione criminale operante nel settore dell’immigrazione clandestina». Ma Alizadeh evidenzia che «come tanti, lei stessa è vittima di organizzazioni criminali che traggono profitto economico sulla disperazione delle persone trasformando lo Ionio in una rotta di tratta di essere umani».

Sopravvissuti

Il veliero è arrivato nel porto di Crotone con l’aiuto della Guardia di finanza alle 11.40 del 31 dicembre scorso. Majidi si trova in carcere per le dichiarazioni di due persone su 77, sono sentiti poco dopo lo sbarco. «Bisogna considerare diversi elementi quando ci si rivolge a persone che hanno affrontato un viaggio in mare», spiega Raffaella Spinoso, psicologa con competenze psicofisiologiche, che ha lavorato con persone con background migratorio.

Appena toccata la terraferma, spiega, «pensiamo che siamo di fronte a una persona che si è lasciata alle spalle un viaggio in mare molto pericoloso, in cui si è confrontata con la paura di morire». Cinque giorni di traversata senza scendere da una barca, con condizioni climatiche non sempre favorevoli, sono moltissimi: «Basti pensare ai bisogni di ogni giorno, soprattutto per una donna: andare in bagno, specialmente se hai il ciclo, mangiare, bere».

Scesi dalla barca, «spesso si perdono i riferimenti spazio temporali», prosegue, «sei in una condizione di allarme, ti senti confuso e disorientato». Alcune persone hanno investito tutte le risorse economiche delle famiglie, che spesso si indebitano.

Questo, dice Spinoso, carica chi migra di una grande responsabilità, con l’aspettativa di dover costruire qualcosa per non sciupare i sacrifici fatti. «Ma se arrivo in un paese dopo un viaggio pericoloso e vengo accusato di essere un criminale quando non lo sono, anziché avere la possibilità di essere aiutato, mi sento in uno stato di impotenza, paura, indeterminatezza. E l’indeterminatezza e la criminalizzazione sono il fulcro di un atteggiamento di sopruso».

È questa la cornice in cui inserire la ricerca di un “responsabile” della traversata. «Le persone stanno affrontando per così dire una crisi di identità, non lasciano solo luoghi e persone care, ma l’immagine di chi erano prima del viaggio. A volte si è costretti a lasciare il proprio paese senza un progetto migratorio. Si tratta perciò di un momento in cui le persone sono come sospese, in attesa di una ridefinizione di sé», conclude Spinoso.

Sono circa 3.200 le persone fermate con l’accusa di essere scafisti dal 2013, in base ai dati del rapporto “Dal mare al carcere” del 2021. Nel 2023 sono stati registrati 177 arresti: circa tre persone ogni duemila arrivi. Tutto ciò accade in Italia dove è più semplice per i media nazionali e per la società civile esercitare un monitoraggio e denunciare la violazione dei diritti. Sarà invece difficile, se non impossibile, intercettare le violazioni nei centri voluti dal governo in Albania.

*È stata corretta la trascrizione di questo virgolettato, errato nella prima versione. Sono state sostituite le parole «non può chiedere» con «le è pregiudicato»

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