Partiamo dai fatti: un finalista italiano maschio nello Slam mancava da 45 anni. Il penultimo Adriano Panatta a Parigi 1976, l’ultimo Matteo Berrettini a Wimbledon 2021. In mezzo, il mare magnum delle opinioni sui perché del boom del tennis italiano, perlopiù macchiate da un vizio logico molto diffuso: il senno di poi. Ex post, tutto si può sostenere: pure – lo si è sentito – che i successi dei ragazzi siano figli dell’effetto traino dato dalle vittorie di Francesca Schiavone, Sara Errani, Flavia Pennetta e Roberta Vinci qualche stagione fa. È anche comprensibile, lasciati all’orfanotrofio anni di sconfitte, che si sia scatenata la gara a intestarsi le vittorie. Ma non sono le ricostruzioni di parte, o a spanne, che possano aiutare a comprendere un fenomeno piuttosto complesso.

Coltivare i campioni

Il tennis è uno sport geneticamente individuale e senza avviamento di massa in età infantile, come può essere il calcio che conta sulla quantità da cui scremare l’eccellenza. Nel tempo si sono contrapposti due approcci: quello francese, strutturato su un modello pubblico ricco e capillare con presenza di campi e istruttori sul territorio, e con massiccio impiego di personale tecnico e amministrativo; e quello spagnolo, con federazione pressoché inesistente e iniziativa lasciata esclusivamente in capo a team privati.

Entrambi i modelli hanno funzionato. La Francia ha prodotto giocatori da top 10 in serie, e lo fa da decenni. La Spagna, senza un euro di aiuto statale o parastatale, idem: ha invaso il mondo con i suoi “arrotini” e corridori che prima vincevano soltanto sulla terra rossa, poi hanno preso a trionfare un po’ dappertutto, stante anche la progressiva uniformazione delle superfici di gioco, grazie a cui ora si può giocare sulla terra e sull’erba pressappoco nella stessa maniera.

La teoria non basta

Solo che la teoria non è perfetta. Per la Francia i Richard Gasquet, i Gaël Monfils, gli Jo-Wilfried Tsonga, che a noi italiani avrebbero fatto spellare le mani, non bastano. Perché l’ultimo campione Slam maschio rimane Yannick Noah, Roland Garros anno domini 1983, e tutto ciò che non è eccellenza viene considerato, nella patria della grandeur, assolutamente insufficiente. Per la Spagna, la cui maggior struttura di allenamento è l’accademia privata costruita a Manacor da Rafa Nadal – in cui tra l’altro si allenano pochi spagnoli e tanti talenti esteri – l’unica speranza è che i coach di casa continuino ad avere per le mani materiale di prima qualità e non, come è accaduto da noi per troppo tempo, scarti di altri sport, perché là non esiste un sistema in grado di finanziare o sostenere in alcun modo la crescita del gioco e se Toni Nadal, deus ex machina di Rafa, inizia ad allenare il promettente canadese Auger Aliassime, non c’è santo o contratto che tengano: il privato va dove c’è il mercato.

C’è un ultimo elemento variabile di cui tenere conto. Ogni anno si disputano quattro tornei Slam. Attualmente, ci sono in attività tre giocatori che ne hanno portati via 60. Equivalgono a 15 anni filati, arco di tempo che fino a poco fa superava la durata media di una carriera da professionista, in cui solo Novak Djokovic, Roger Federer e Nadal hanno vinto tutto, lasciando uno splendido nulla agli altri. Rivolgersi allo stesso Jo-Wilfried Tsonga per informazioni: in qualunque altra epoca tennistica, avrebbe vinto il quadruplo e almeno un paio di Slam, invece di invecchiare e appassire nella speranza che quei tre si stufassero di spadroneggiare, e non ha mai vinto nulla di imperituro salvo la Coppa Davis, che è manifestazione a squadre.

Altri come Andy Murray, Stan Wawrinka e Juan Martín del Potro si sono talora intrufolati in quell’oligarchia spietata ed escludente con imprese al di là dell’immaginabile, ma sono stati – per quanto straordinari – episodi di temporanea interruzione dello strapotere. Ecco: questa congiunzione astrale non si vedrà più, per molto tempo. I flussi storici del tennis insegnano che si è vissuta una bolla e non la normalità; quei tre alieni sono, per l’appunto, visitatori di un altro mondo e hanno ottenuto successi cumulati che mai si erano registrati dai primordi della disciplina: ne sia prova che 60 Slam sono più di quanto Sampras, Agassi, Becker, Edberg, Lendl, McEnroe e Courier messi insieme siano mai riusciti a razziare.

Divinità e teenager

Ed erano ritenuti, a ragione, divinità del tennis. Federer sta per compiere 40 anni, tuttavia, e sembra davvero all’ultimo chilometro. Nadal (35) si deve gestire e risparmiare per stiracchiare la carriera il più possibile ma, salva la sua amata terra rossa, ormai è vulnerabile. Chi invece è in missione per conto di (D)io è Novak Djokovic, ancora in forma da ragazzino nonostante i 34 anni e i milioni di rincorse e spaccate, impegnato come è in una lotta contro la storia, in corsa per il Grand Slam (quattro grandi tornei vinti nello stesso anno solare), più il titolo olimpico, più il record di Slam e tutti i connessi che possano permettergli di essere ritenuto il migliore. Davanti, si spalancano le praterie.

Questo è il contesto in cui è rifiorito il tennis italiano. Anzitutto, è appena ragionevole ritenere che la statistica dovesse per forza assegnarci qualche puledro, dopo una vita di meste preghiere perché entro il terzo giorno di Wimbledon tutta la pattuglia non fosse già imbarcata sul volo di ritorno. Ed è successo: non solo Berrettini, nato nel 1996, ma pure Lorenzo Sonego (1995) e soprattutto i ragazzini d’assalto Jannik Sinner (2001) e Lorenzo Musetti (2002) hanno il potenziale atletico e tecnico per competere ai massimi livelli, in uno sport che fu degli adolescenti ma è dei maturi.

Il Boris Becker che trionfava a Wimbledon a 17 anni non esiste più non per caso, ma perché l’asticella della prestazione atletica si è arrampicata verso il cielo al punto tale che, oramai, un teenager non può più reggere la sfida posta in partite che si giocano al meglio dei cinque set. E, molto semplicemente, i tennisti italiani delle generazioni precedenti – salvo Fabio Fognini, frenato però da altri impacci che necessiterebbero trattazione a parte – non erano abbastanza forti. Ai giorni nostri, fa notizia Carlos Alcaraz, pupillo di Nadal: ha 18 anni, non ha vinto nulla, è numero 72 al mondo e non ci sono altri diciottenni tra i primi cento del ranking Atp, in cui figurano solo lui Sinner (23esimo) e Musetti (63esimo) in rappresentanza dei teenager.

Investire sul futuro

Dopodiché, la felice concentrazione di coach italiani competenti e ambiziosi al lavoro con ragazzi dalle qualità finalmente non residuali (Vincenzo Santopadre con Berrettini, Riccardo Piatti che usò lavorare con stranieri e ora con Sinner, Simone Tartarini con Musetti, Gipo Arbino con Sonego) ha contribuito in maniera determinante a che non si disperdessero talenti. Si è smesso di ragionare per cortiletti e col respiro corto dell’uovo oggi e al diavolo la gallina, quando gli italiani puntavano a vincere subito e solo sull’amica terra rossa, rinunciando ad ambizioni massime per monetizzare nell’immediato.

Finalmente, i nostri hanno imparato a sviluppare un gioco buono per tutte le superfici, con un servizio che non fosse una mera rimessa in gioco. A non avere fretta, accettando di investire sul futuro rinunciando a qualche coppetta giovanile di nessun valore (ah: l’ultima vittima di quella mentalità è stato Gianluigi Quinzi, ex numero uno juniores, coetaneo di Berrettini, ritiratosi giorni fa senza mai aver sfondato il muro dei top 100). Chi guida i rampanti Sinner e Musetti non ha commesso gli stessi errori.

Tornare sport di massa

E poi, un sistema di sostegno finalmente funzionale agli atleti: in Italia si è vissuto un ibrido tra il modello francese e quello spagnolo, che – questo sì, è utile senno di poi – sembrava aver raccolto più le pecche che non i vantaggi di entrambi. Ora la federazione lascia lavorare i coach privati a casa loro e sostiene a vario titolo l’attività dei ragazzi in cerca di professione: sia economicamente, sia con contributi tecnici (il coach itinerante Umberto Rianna) e logistici. Ha lavorato perché l’Italia, da periferia degradata, tornasse a essere centro del tennis ospitando eventi, dal lusso delle Atp Finals a Torino al Master NextGen (i migliori giovani del mondo) a Milano Torino; giù fino alla base, i tanti eventi challenger che permettono ai ragazzi di fare esperienza e costruirsi una classifica mondiale senza macinare migliaia di miglia a zonzo per il globo.

Titolino

In questo humus sono cresciuti i nomi che oggi scaldano il cuore degli appassionati e stanno aprendo le porte al tennis come sport di massa: come negli anni Settanta, quando sul tram si parlava della veronica di Panatta e non passava fine settimana senza che venisse inaugurato un nuovo circolo del tennis. Oggi, buona parte di quei club sono avvizziti, strozzati dai costi di manutenzione, disassati dalla concorrenza degli altri sport – pure dei finti amici del tennis, come il padel – e, chissà, questa nuova e straordinaria vena aurifera di Berrettini & co. potrà aiutarli a risollevarsi. 

Sicché, se a 26 anni Panatta viveva il suo sogno tra Roma, Parigi e la Davis ma stava per entrare nel secondo tempo – piuttosto dimesso – del suo film, a 25 Berrettini ha ragione nel sentirsi appena all’inizio: perché Djokovic passerà, più presto che tardi, e Matteo avrà anni, tanti davanti a sé, per contendere i titoli che contano a una concorrenza di livello (Stefanos Tsitsipas, Dennis Shapovalov, Alexander Zverev, Casper Ruud e Andrej Rublev) ma, finalmente, umana. Figurarsi gli altri due.

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