Nel profluvio di iniziative, convegni, giornate di studio e pubblicazioni che nell’anno in corso stanno ricordando la nascita di Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti (Firenze, 27 maggio 1923), è piovuto anche il libro di Adolfo Scotto Di Luzio L’equivoco don Milani (Einaudi). L’autore, docente di storia di pedagogia all’università di Bergamo, si misura con fervore polemico e una certa acrimonia per porre sotto critica la vita e l’opera del priore di Barbiana.

È un’operazione del tutto legittima; mitologizzare uomini ed esperienze non è mai salutare, ed è certamente vero che su don Milani si sono sprecate retoriche e appiattimenti strumentali che continuano a fargli torto. Ci sono tuttavia, nell’opera di Scotto di Luzio, due limiti evidentissimi: uno di metodo e uno di merito.

L’approccio da storico

Scotto di Luzio è uno storico, ma è uno di quelli storici che potremmo definire di scuola classica. Lavora solo ed esclusivamente sulle fonti scritte, non attribuendo nessun valore ad altri tipi di informazioni e di ricerca. Ne è prova la sua dichiarazione esplicita (al cap. 4,4, quando parla del rapporto tra don Milani e Mario Lodi) del fatto che Lettera a una professoressa sarebbe frutto integrale della scrittura di don Milani, con un contributo del tutto accidentale dei suoi ragazzi.

Il passaggio logico che fa Scotto Di Luzio è il seguente: Lodi e Milani si incontrano nell’estate del 1963; dall’incontro nasce una corrispondenza tra i ragazzi di Barbiana e quelli del Vho di Piadena; a una prima lettera dei ragazzi toscani quelli lombardi rispondono chiedendo chiarimenti sul concetto di “cultura borghese”; non avranno mai risposta scritta perché i ragazzi del Mugello non riusciranno ad articolarla per iscritto. Ergo, conclude Scotto di Luzio: se non sono stati capaci di completare una lettera risulta improbabile poter pensare che abbiano scritto un intero libro. Quindi, considerazione finale, la “scrittura collettiva” non esiste.

Potrebbe anche essere un’inferenza convincente, se non fosse che uno storico che avesse voluto riferirsi anche a fonti orali o audiovisive (parlando con gli ex-allievi di don Milani e con la famiglia e gli ex-alunni di Mario Lodi o, anche solo, prendendo visione del documentario realizzato da Vittorio De Seta nel 1976 Quando la scuola cambia. Partire dal bambino: Mario Lodi, nel quale si vede chiaramente il processo di scrittura collettiva de La mongolfiera) avrebbe probabilmente avuto qualche titubanza in più prima di scolpire un’affermazione tanto categorica.

Una figura bidimensionale

Sul merito dell’Equivoco don Milani le obiezioni potrebbero essere più di una. In questa sede limitiamoci a quella forse più importante. Scotto di Luzio afferma (reiterando peraltro un concetto che aveva espresso in una discutibilissima scheda biografica su Mario Lodi redatta per la Treccani) che la maggior preoccupazione di don Milani, una volta arrivato a Barbiana, fu sempre quella di salvaguardare l’integrità originaria dei poveri figli di contadini che aveva portato nella sua scuola, per non far rischiare loro la contaminazione con le storture e le violenze del mondo borghese dal quale lui – figlio di ricca famiglia di origine ebrea, con parentele e frequentazioni nel miglior mondo intellettuale – aveva disertato con la scelta di farsi prete. In questi passaggi l’autore sembra svestire i panni dello storico per assumere quelli di psicologo.

Secondo Scotto di Luzio la figura di Pierino – lo studente privilegiato della Lettera – sarebbe un calco del nipote Andrea, figlio del fratello Adriano, che lo avrebbe addirittura soppiantato nelle cure e nelle attenzioni della madre Alice. E la Lettera stessa sarebbe un imponente lavoro di reazione individuale al mondo dal quale si è allontanato, sorretta dal principio secondo il quale «in don Milani il povero non deve cambiare, altrimenti tutta l’impalcatura psicologica della sua personale rivolta si sfalda» (cap. 8,6).

Tutto il resto deriverebbe da qui: la cristallizzazione della lingua come arma di difesa (Scotto di Luzio non risparmia attacchi molto pesanti a tutto il lavoro fatto su questo tema da Tullio De Mauro); l’enfasi posta sugli aspetti educativi della scuola, tralasciando i suoi compiti di istruzione; l’abbandono della scuola delle discipline per quella (peraltro non meglio identificata) dell’“amore”. Inserendosi a pieno titolo in quel filone di pensiero (e, in qualche modo, di azione politica restauratrice) che ci ha già dato i lavori di Ernesto Galli della Loggia, Paola Mastrocola, Luca Ricolfi, Scotto di Luzio ribadisce con decisione (anche nella conversazione recentemente tenuta a Padova e riascoltabile per chi volesse qui) che compito della scuola è quello di istruire e che sola (sola!) possibilità di essere istruiti è quella di leggere.

Metodo e contenuto si saldano: la parola scritta è l’unica possibilità di apprendimento. Con buona pace di qualsiasi altra forma di espressione e di conoscenza (la musica, il cinema, il disegno – sul quale Mario Lodi ha prodotto riflessioni di altissima importanza e quella splendida mostra permanente sull’Arte del bambino che sta alla Casa delle Arti e del Gioco di Drizzona –, e così via). Saltando a piè pari ogni acquisizione scientifica sulle diverse intelligenze, Scotto di Luzio riafferma che: «La scuola pretende dai suoi studenti la condivisione di un terreno comune con ciò che insegna. Fosse anche soltanto la lingua e la capacità di stare seduti nei banchi» (Cap. 1,4). La lingua – ovviamente appresa solo attraverso la lettura: passaggio ineludibile, certo, ma che può essere accompagnato anche da altre forme e altri processi –  e «stare seduti nei banchi».

L’impressione, a fine lettura, è che nell’Equivoco don Milani di equivoci ce ne siano molti e che quella figurina bidimensionale che lui ritaglia dall’opera e dalla vita di don Lorenzo Milani corrisponda più alle aspettative di Scotto di Luzio, che guardano all’indietro che a una reale convinzione sulle possibilità di trasformazione dell’esistente anche grazie al lavoro scolastico.

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