«Il baklava è un dolce turco, il più grande dono fatto dai turchi all’umanità». Mehme Yildirim aveva appositamente chiamato a raccolta la stampa per precisare questa che, solo all’apparenza, sembra essere una sottigliezza. La precisazione del presidente dell’Associazione dei produttori (Baktad) si era necessaria dopo che, quasi vent’anni fa, il tipico dolce mediorientale era stato raffigurato vicino a una bandiera greca, durante le celebrazioni della Giornata dell’Europa da parte dei greco-ciprioti. Un fatto intollerabile per chi ne rivendica da sempre la paternità. Il baklava non è solo «il sultano dei dolci», affermava Yildirim, bensì «il dolce dei sultani».

Pertanto, gli assoggettamenti di Atene «non si fondano su alcuna prova concreta” rendendo quindi “inutile sfidare i greci su questo terreno: non hanno maestri nel baklava». Caso chiuso? Macché. Cogliendo l’occasione di una visita ad Ankara dell’allora capo delegazione della Commissione europea in Turchia, Hansjoerg Kretschmer, alcuni giornalisti gli chiesero cosa ne pensasse. Probabilmente colto alla sprovvista, propose di chiedere conto alla Corte di Giustizia. Dall’Aja non è mai arrivato alcun parere che certificasse l’origine del dolce, ma dieci anni fa l’Unione europea aveva riconosciuto l’Igp a Gaziantep, città meridionale vicina al confine siriano.

Le polemiche attorno al baklava riassumono bene il Medio Oriente. Una terra dove tradizioni e culture nazionali si mischiano, acuendo lo scontro tra i vari attori, invece che ridurlo. Anche una ricetta rappresenta una ragione per innescare cortocircuiti diplomatici, con conseguenze poco concrete ma nocive alla convivenza.

Secondo la tradizione

Cominciamo dal principio. Per un buon baklava bisogna stendere l’impasto ben imburrato, così da ottenere un velo. Ne servono decine, da appoggiare uno sopra l’altro per poi inserirci un tritato di pistacchi, noci, nocciole o mandorle, dipende dalla zona. L’ultimo passaggio prima di metterlo in forno è una spennellata di miele o sciroppo, a seconda da dove lo si mangia. Così come c’è differenza nel taglio: quadrato o rettangolare quello dei greci, arrotolato quello dei turchi, a rombo o diamante quello libanese e armeno. Ma non esiste una legge scritta che spieghi la forma corretta. Le dicerie attorno al baklava rendono le sue origini controverse.

Il motivo per cui molti stati mediorientali lo rivendicano come un prodotto della propria tradizione culinaria risiede nel fatto che, in effetti, è un po’ di tutti. Sebbene alcuni lo vedano come il discendente della placenta romana, la tradizione lo fa risalire agli assiri, otto secoli prima della nascita di Cristo, quando il loro impero si estendeva lungo quelli che oggi sono i territori di Egitto, Iraq, Kuwait, Iran, Libano, Siria, Israele, Palestina, Giordania e Turchia. Tuttavia era ancora preparato in forma primordiale rispetto al dolce odierno. I greci hanno dato un tocco di originalità con le varie spezie che commercializzavano, ma per arrivare al baklava che tutti conosciamo bisognerà aspettare l’impero ottomano, quando dalle cucine del palazzo Topkapi a Istanbul uscì fuori la prima pasta fillo.

Il sultano Solimano il Magnifico ne rimase talmente estasiato che lo fece arrivare in tutti gli angoli del regno, fino ai Balcani, dove subì inevitabili modifiche (sembrerebbe che lo strudel derivasse dalla ricetta ungherese). Per ingraziarsi i soldati dell’esercito, soprattutto i giannizzeri, il sovrano istituì la Baklava Alayi, una processione che si teneva a metà Ramadan. La tradizione venne mantenuta finché il corpo d’élite non venne smantellato nel 1826 da Maḥmūd II, ma ancora oggi viene celebrata in alcune località della Turchia.

Inoltre, come praticamente ogni cosa in Medio Oriente, il baklava è un elemento entrato nelle varie culture religiose. Se i musulmani lo preparavano nel mese sacro di digiuno, i cristiani lo servivano nel periodo di Quaresima, aumentando il numero degli strati di pasta: quaranta, come i giorni che intercorrono tra il mercoledì delle ceneri, o trentatré, come gli anni Gesù. Gli ebrei invece lo gustavano durante il capodanno civile, Rosh Hashanah, e nel giorno di Purim. Relegarlo alle sole festività era per una ragione prettamente economica, dato che gli ingredienti avevano dei costi elevati.

Pertanto, sebbene sia facile trovarlo in qualsiasi pasticceria mediorientale, si può concludere che il baklava sia un dolce turco, specialmente quello con il pistacchio che trova le sue radici a Gaziantep. Ad avvalorare questa tesi anche una storia raccontata dal Wall Street Journal. Durante la crisi economica, si era scoperto che il famoso venditore di dolciumi greco Baklava Epe aveva importato per un decennio i prodotti dallo storico produttore turco Nadir Gullu. Lo stesso che lo ha salvato dalle difficoltà in cui navigava, rinegoziando l’accordo commerciale che avevano. Un doppio schiaffo rifilato da Ankara ad Atene.

“Baracklava”

Suo malgrado, anche l’ex presidente statunitense Barack Obama finì vittima della diatriba. Fresco di vittoria elettorale, durante una visita a Istanbul nell’aprile del 2009 venne accolto proprio da Gullu con una teglia di baklava che lo raffigurava. Giocando con il suo nome, venne ribattezzato Barackava.

Erano gli inizi del suo mandato, quelli carichi di una speranza che, agli occhi di un turco, è naufragata con lo scoppio della guerra in Siria. Scoppiata due anni più tardi, questa ha combaciato con un’altra vicenda che ha interessato il primo presidente afroamericano della storia. Era il 25 marzo del 2012, giorno dell’Indipendenza greca.

Per l’occasione, la Casa Bianca aveva aperto le porte dell’East Room, utilizzata per eventi e cerimonie. Una lista degli invitati non è mai stata diffusa, mentre il menù venne elencato dalla chef Maria Loi, aprendo un caso diplomatico a sua insaputa: moussaka, foglie di vite ripiene, insalata greca e, per finire, baklava, che Obama tanto “amava”. Apriti cielo. I media turchi si scagliarono contro il presidente, ricordandogli come tutto quello che aveva gustato durante la cena fossero loro specialità.

Per evitare altre situazioni simili, la Camera dei commercianti di simit a Istanbul aveva richiesto l’ottenimento di un brevetto internazionale che attestasse la paternità del gommoso anello di pane ricoperto di sesamo, tipico della street food turca e tra gli alimenti più consumati dalla popolazione. «Ci aggrapperemo al nostro simit e non permetteremo ai greci di impossessarsene» aveva assicurato il presidente confermando l’importanza dell’identità nazionale. A chi la confonde con quella di un vicino viene fatto notare l’errore. Fosse anche il presidente degli Stati Uniti d’America.

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