Primum non nocere. In un gioco a basso punteggio come il calcio, la prima regola per un difensore vale quella per i medici: non arrecare danno, vuoi per imperizia, disattenzione o casualità. Traslandola al campo, una conseguenza è evitare che siano gli avversari a segnare, non solo, quello è il fine, ma anche non farseli da soli nella propria porta, i gol, l’obiettivo minimo. Ebbene: la raccolta empirica dei dati racconta che l’Europeo di tre anni fa annotò un record di 11 autoreti, Euro 2024 era già a quota 7 prima delle partite di ieri e allora, forse, dalla coincidenza si rischia di passare alla statistica.

Come sia possibile che accada in un calcio come quello attuale, che ormai ha depenalizzato le deviazioni (e dunque non le registra come autogol), resta qualcosa da valutare. Certo, il caso incide, ma non può essere solo una coincidenza: le carambole sul ceco Hranáč in favore del Portogallo e sull’azzurro Calafiori con la Spagna, il retropassaggio autolesionista del turco Samet Akaydin sempre contro i lusitani, il rimpallo sull’albanese Klaus Gjasula con la Croazia, il preciso colpo di testa dell’austriaco Maximilian Wöber pro-Francia, l’olandese Malen e la sua scivolata che ha lanciato l’Austria, e all’esordio il tedesco Antonio Rüdiger contro la Scozia, ininfluente, d’accordo, ma pur sempre il primo di una lunga lista.

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Le aree affollate

«Personalmente sono convinto che tutto nasca da un modo diverso di intendere il gioco dei difensori», analizza Guglielmo De Feis, già attaccante con un passato anche alla Sambenedettese, oggi avvocato e docente presso il centro tecnico di Coverciano: «Chi difende si trova molto spesso più vicino alla porta rispetto a quanto accadeva in passato ed è chiamato a compiti diversi, come quello di palleggiare. Questo produce un aumento di giocatori in area che diventano come birilli per chi tira o mette il pallone forte in mezzo. Peraltro si sono ridotti anche i margini di intervento dei portieri, che non si assumono il rischio di un’uscita in mezzo al traffico».

L’effetto flipper, a ben guardare, ha caratterizzato diverse delle autoreti viste sinora all’Europeo: la palla che schizza e sbatte dalla parte sbagliata, spesso dopo una prima deviazione o un rimpallo, come si fosse in un biliardino, con la differenza che in quest’ultimo gli ostacoli sono fissi, mentre sul campo no e questo alimenta la percezione dell’ineluttabile. Invece non è sempre così. «A me sembra di assistere a un cambiamento antropologico dei difensori. Il loro unico compito per decenni è stato quello di evitare i gol: chi difendeva cresceva avendo bene in mente l’idea dell’inviolabilità assoluta della porta, a costo di sparire dal gioco pur di limitare l’avversario. Quando ciò avveniva, avevano fatto per bene il loro mestiere. Come regola aurea, non si sarebbero mai sognati di fare un retropassaggio nello specchio della porta, nemmeno quando i portieri potevano raccogliere quei palloni con le mani».

Il caso dell’autorete di Akaydin è, a suo modo, esemplare, ma non casuale. In Serie A lo si è visto in diverse occasioni – memorabile quello dello juventino Gatti contro il Sassuolo lo scorso settembre – e le volte nelle quali lo scempio non si compie è uno scampato pericolo, ma appunto: sempre di pericolo evitabile si tratta. «Credo che tutte queste autoreti in Germania siano una combinazione, detto questo i passaggi indietro nello specchio della porta sono proprio errori di concetto, non c’è molto da dire», sostiene Lorenzo Minotti, oggi opinionista dopo una carriera da libero al quale veniva anche chiesto di impostare e farsi vedere in avanti.

«Le altre autoreti, invece, hanno probabilmente una spiegazione nella maggiore intensità del gioco: privilegiando il lato fisico rispetto all’aspetto tecnico, è molto probabile che chi difende perda concentrazione e lucidità, soprattutto quando si trova al cospetto di una giocata veloce. Quando un avversario arriva rapidamente sul fondo, del resto, sul cross esterno è normale tentare di chiudere verso la porta: i rimpalli fanno parte del gioco, così come alcuni errori di interpretazione dovuti proprio alla velocità».

Un senso in tutto questo insomma c’è, ma rende l’autogol qualcosa di prosaico, destinato a resistere nell’aneddotica del racconto orale (e in quello televisivo, naturalmente), ma senza la libertà poetica che gli automarcatori dei tempi che furono, quando ancora valevano appunto le deviazioni fortuite, hanno regalato a qualcuno una nomea imperitura e l’ingresso nella letteratura per parole, opere e omissioni.

Vi si trovano il Comunardo Niccolai e un suo epico tentativo di autorete contro il Catanzaro, così come dipinto da Edmondo Berselli, o un Riccardo Ferri che sempre resterà quello che «batte il record di autogol» cantato da Ligabue, anche se un giorno perdesse il primato.

Ecco: nulla di tutto questo è diventato uno stigma per i protagonisti, eppure è proprio nella straordinarietà degli eventi che la memoria si fa romanzo, ma se l’autogol comincia a fare un po’ troppo parte del gioco allora dal romanzo si passa alla cronaca, e la cronaca è un’altra cosa ed è una parte dello spirito del tempo calcistico. Quello dove si può passare indietro nello specchio della porta senza essere considerati dei folli, quello nel quale in area piccola si diventa come i funghetti del flipper e allora via, dentro un altro gettone. Solo che qui se la palla entra in buca i punti si contano sulle dita di una mano, anche meno, mica a centinaia di migliaia.

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